Quel che si può dire di questa Legge di stabilità, senza aver ancora letto i testi, è che si tratta di una manovra consistente (è salita a 26,5 miliardi di euro), eppure di sostanziale galleggiamento, con l’obiettivo di passare la nottata (cioè il referendum), distribuendo una serie di misure su una platea la più ampia possibile: dai pensionati agli statali (finisce il blocco dei contratti), dalla scuola alla sanità, dalle banche alle piccole imprese; c’è qualcosa per i poliziotti e per gli agricoltori, per i negozianti e persino per gli studenti. Matteo Renzi ha detto di seguire un disegno organico, cioè meno tasse più diritti, perseguito in mordo coerente in tutti questi anni. Tuttavia il capo del governo ha ammesso con sincerità che “le cose non vanno ancora bene, anche se vanno meglio”. Un ottimismo prudente e una prudenza rivelatrice.
Il governo ha indicato come obiettivo di crescita l’1% e Renzi ha detto che Pier Carlo Padoan è stato troppo cauto perché a lui risulta che stiamo viaggiando sull’1,2%. In ogni caso conta molto sull’effetto spinta che può venire da un aumento del disavanzo pubblico al 2,3% del Pil. Finora la spinta del deficit spending è stata molto modesta. In ogni caso la partita con la commissione europea è ancora aperta perché l’Ue vorrebbe vedere una riduzione, sia pur modesta (0,1%) del disavanzo strutturale (cioè al netto degli interventi congiunturali) che così non ci sarà. Del resto, il Parlamento ha autorizzato un aumento del deficit fino al 2,4% e lo ha fatto con una maggioranza dei due terzi, il che consente di violare l’articolo 81 della Costituzione e di conseguenza il Fiscal compact.
Le due operazioni più consistenti, e anche quelle di maggior impatto sull’opinione pubblica, sono l’abolizione di Equitalia e, quindi, dell’atteggiamento “vessatorio” (parole di Renzi) nei confronti dei contribuenti, e l’Ape, cioè l’anticipo della pensione. Entrambe dovrebbero avere una ricaduta in termini anche elettorali.
Cominciamo dalle tasse. Renzi ha detto di non aver mai promesso di ridurre l’Irpef prima del 2018. Molti di noi avevano capito il contrario, ma forse ci siamo sbagliati. Intanto però viene tagliata l’Ires, proseguendo in quel cammino passo dopo passo (come scrive lo hashtag renziano). L’operazione più consistente anche quest’anno è il rinvio delle clausole di stabilità, cioè gli aumenti delle imposte dirette per circa 15 miliardi che scattano se non viene rispettato il cammino verso il pareggio di bilancio. L’aumento non è stato cancellato, come ama dire Renzi, ma rinviato di un altro anno. Ciò significa che nel 2017 bisognerà mettere in cantiere un taglio fiscale molto consistente se si dovrà tener fede all’impegno di ridurre l’Irpef evitando un parallelo aumento dell’Iva. Ma primum vivere. il 2017 è un altro anno. Chissà, forse ci sarà persino un altro governo con o senza Renzi al comando.
La speranza è il sentimento che prevale dal lato delle entrate e, quindi, delle risorse disponibili per tutte le misure annunciate. Basti pensare ai 2 miliardi attesi dalla voluntary disclosure, cioè dal rientro volontario dei capitali dall’estero, o i 4 miliardi ipotizzati come ricaduta dalla chiusura di Equitalia (si immagina che, scomparso lo sceriffo di Nottingham, la gente paghi più volentieri le multe o le imposte).
Le misure per le pensioni (dalla quattordicesima per i redditi più bassi all’Ape) assorbono 7 miliardi in tre anni e servono a risolvere una serie di problemi che, però, bisogna riconoscerlo, riguardano una minoranza dei pensionati i quali non sono certo i più colpiti dalla crisi. I giornali scrivono il contrario, i partiti di opposizione battono la grancassa, i populisti soffiano sul fuoco e questo trasforma un problema vero, ma circoscritto, in una sorta di emergenza nazionale.
La vera emergenza è il lavoro non la pensione. E qui la manovra per il prossimo anno si affida a una pioggerella di incentivi che equivale a un gocciolio di auspici. Non c’è nessuna vera spallata, nessuna frustata agli “spiriti animali”, c’è sostanzialmente un piccolo cabotaggio.