Che ci sia stata o no una trattativa tra Stato ed elementi di Cosa nostra, dice Leonardo Agueci, procuratore aggiunto della Corte d’assise dinanzi alla quale è stato chiamato a deporre il capo dello Stato, è — appunto — “oggetto del processo”. Come a dire: non partiamo con nessuna tesi precostituita. Ancor meno dopo che nelle tre ore di deposizione Giorgio Napolitano mai ha pronunciato la parola “trattativa”.
Ieri, al Quirinale, il presidente della Repubblica ha risposto a tutte le 40 domande poste dai giudici di Palermo, dei difensori di parte civile e degli imputati nel processo Stato-mafia, compresi i legali dei boss Leoluca Bagarella e Totò Riina, di Antonino Cinà, di Massimo Ciancimino, del pentito Giovanni Brusca e di Marcello Dell’Utri. Il consigliere giuridico del Colle Loris D’Ambrosio, in un lettera a Napolitano del 12 giugno 2012, scrisse di rifiutare con tutte le forze l’insinuazione di essere stato “utile scriba di indicibili accordi” risalenti ai primi anni 90, quando, come magistrato, era in servizio all’antimafia e al Dap. Una lettera che rappresenta uno dei due temi probatori, forse il principale, al centro di una udienza che non ha precedenti. Al termine è lo stesso Quirinale a diramare una nota in cui sollecita la trascrizione degli atti, perché siano resi noti ai media e all’opinione pubblica. “E’ anche interesse nostro averla al più presto —spiega Agueci —. E posso immaginare che già lunedì prossimo questa sarà disponibile”.
Procuratore Agueci, lei ha definito “utile” la citazione del capo dello Stato. Che cosa significa?
Ci ha fornito elementi rilevanti per l’accertamento dei fatti. Questo processo è un unicum per l’ampiezza delle questioni da affrontare e la complessità dei fatti da verificare, oltre che per lo scarto temporale dagli eventi. E’ un processo molto difficile, quindi ogni contributo all’accertamento dei fatti è in qualche modo utile e rilevante. Certamente lo è stato anche quello che ci ha fornito oggi il presidente della Repubblica.
Che cosa vi ha dato in più la deposizione di Napolitano che non avevate prima di andare al Quirinale?
In riferimento ai fatti del 1992-’93 — perché di questo si parla, non dimentichiamolo — ci ha fornito elementi utili per ricostruire uno scenario, quello in cui poi si devono collocare i fatti oggetto del procedimento.
Chiamare a deporre il presidente della Repubblica è un fatto senza precedenti. Non è lesivo delle prerogative del capo dello Stato o almeno mancanza di rispetto istituzionale?
Nemmeno per sogno. Innanzitutto c’è da dire che la testimonianza del capo dello Stato è prevista dal codice di procedura penale all’art. 205. E poi si deve ragionare, più che nei termini di un astratto prestigio, in quelli di principi costituzionali. Il presidente della Repubblica ha delle prerogative di riservatezza che riguardano il suo mandato, ma i fatti oggetto della deposizione di oggi (ieri, ndr) erano esclusi dal perimetro di questa riservatezza, che tra l’altro anche la giurisprudenza della Corte costituzionale ha individuato.
Dunque non vi si può rimproverare di nulla.
Direi proprio di no. C’è stata un’ordinanza ammissiva della sua testimonianza da parte della Corte, il presidente della Repubblica non si è mai avvalso del diritto alla riservatezza e ha risposto in modo estremamente collaborativo e aperto alle domande che gli sono state rivolte, da noi e dalla difesa, soprattutto da noi che avevamo chiesto l’esame. Attacco al prestigio? Al contrario, piuttosto l’esaltazione del prestigio del capo dello Stato, manifestato dal modo corretto e dignitoso con cui si è relazionato con l’autorità giudiziaria.
Secondo lei la storia degli anni Novanta andrà riscritta?
Riscritta no. E’ però probabile che col tempo verranno aggiunti nuovi tasselli, là dove ci sono alcune zone oscure, dei vuoti che vanno riempiti. E’ un puzzle dove quello che potrebbe essere aggiunto non è destinato a stravolgere quello che già si conosce, ma completarlo, e all’occorrenza farlo comprendere meglio.
La Corte non ha ritenuto ammissibile una domanda fatta dalla difesa sul colloquio tra Napolitano e l’ex presidente Oscar Luigi Scalfaro. Perché?
Perché non c’entrava con il processo. C’era un’ordinanza di ammissione della prova per certi elementi e a quelli ci si è limitati, non si è fatto un processo — questo sì improprio e contro le regole — alla storia degli anni Novanta. Abbiamo a che fare con alcuni fatti riguardanti gli attentati del ’92 e ’93, il clima politico che ne era scaturito e poi altri fatti connessi a quelli, come la lettera di Loris D’Ambrosio. Sempre fatti circoscritti, e la Corte è stata molto attenta a mantenere la discussione entro questo perimetro.
“Non credo che ci siano gli elementi per ritenere definitivamente superato il pericolo di un ritorno di strategia di violento attacco allo Stato”. Lo ha detto prima dell’udienza il pm Nino Di Matteo. Come giudica questa affermazione?
Di Matteo è un magistrato che lavora con me; lo conosco bene e soprattutto conosco il suo elevato livello di esposizione a rischi di ogni genere. Posso immaginare allora le motivazioni alla base di queste dichiarazioni, che hanno certamente un fondamento rilevante. Si tratta comunque di materia che con il processo non c’entra.
Questo processo ha suscitato molte polemiche sull’utilizzo dei pentiti…
Non è stato oggetto dell’esame di oggi. Né era un argomento previsto nella deposizione del presidente della Repubblica. Si tratta comunque di polemiche tutt’altro che nuove e risultate spesso strumentali.
Il capo dello Stato ha risposto a tutto, almeno a quello che gli ha chiesto la Corte. Non però a tutto quello che gli ha chiesto la difesa.
La difesa in diversi punti è tornata su tematiche che erano state affrontate nel nostro esame, o su tematiche estranee al processo, e su quelle, correttamente, non è stata data risposta.
Cosa può dire dei progetti mafiosi di attentare a Napolitano e a Giovanni Spadolini tra il ’93 e il ’94?
E’ un tema che è stato oggetto di domande al capo dello Stato. Il presidente ha risposto dicendo che era stato informato e che erano state adottate le misure di sicurezza speciali e più rigorose atte a prevenire questi attentati. Fino a quando non gli è stato comunicato che era un pericolo meno concreto di come si era ritenuto in un primo momento.
Una trattativa tra lo Stato e Cosa nostra c’è stata o no?
Appurare ciò è proprio oggetto del processo.
Come giudica le critiche che sono piovute sul vostro operato?
In questa vicenda la Procura di Palermo è stata spesso oggetto di attacchi offensivi e preconcetti in relazione ad iniziative che si svolgevano esclusivamente nell’ottica del processo, e ciò molte volte da parte di persone che del processo conoscevano poco. Noi svolgiamo il ruolo che la legge ci attribuisce e che consente anche di richiedere, ove se ne ravvisi la necessità, di assumere come teste anche il Capo dello Stato, dentro i limiti che la legge e la Costituzione prevedono. L’udienza — ripeto — è stata un grande riconoscimento istituzionale per la figura del presidente della Repubblica, che ha dato un contributo importante all’accertamento della verità.
Non un episodio, l’ennesimo, del conflitto tra giustizia e politica?
No, semmai l’esatto contrario. In questa occasione il rapporto tra le istituzioni giudiziarie e quelle politiche, per di più la più alta di tutte, si è svolto in modo molto corretto e positivo. Le due istituzioni sono incontrate perfettamente, in un clima di piena collaborazione e rispetto.
(Federico Ferraù)