Atene riuscirà a ripagare i propri debiti (il 175% circa del Pil) nel 2054. Purché non ne contragga di nuovi. Nei prossimi quarant’anni la Grecia dovrà (dovrebbe) perciò accumulare, anno dopo anno, un surplus di bilancio attraverso tagli e sacrifici senza poter contare su investimenti attivati dal credito. Una prima tappa, secondo quanto previsto dalle regole votate dai partner di Bruxelles, sarà il raggiungimento del 60% nel rapporto debito/Pil, fissato per il 2034, occasione di grande festa. Almeno per i sopravvissuti.
Non sarà facile, del resto, convincere un ragazzo greco di vent’anni, uno dei nuovi elettori che andranno alle urne il prossimo 25 gennaio, che la prospettiva migliore per il suo futuro consista in un Paese che, di qui ai prossimi 40 anni, non recupererà nuovi posti di lavoro, ma ne taglierà almeno la metà di quelli oggi esistenti. Ridurrà in maniera sensibile la spesa sanitaria, l’istruzione e affiderà il sostenimento dei suoi figli all’emigrazione e/o a un’occupazione più o meno precaria nel turismo.
Ecco perché il voto greco del 25 gennaio assume un’importanza drammatica per l’intera Europa. Da una parte, la questione greca solleva il tema dell’indebitamento che grava su buona parte del Vecchio Continente: l’Italia, in particolare, ha visto salire negli ultimi anni, nonostante l’austerità, i debiti al 134% del Pil. Ma anche Francia e Spagna si avvicinano ormai al giro di boa del 100%, già superato da Belgio e Portogallo.
Di fronte a certi numeri s’impongono, dicono in molti, strategie nuove, che probabilmente devono partire da una ristrutturazione più o meno traumatica del debito esistente. È il cavallo di battaglia di Tsipras in Grecia, ma anche di Podemos in Spagna, altra forza politica emergente. Non ha fatto così anche la Germania del secondo dopoguerra? Il successo della Repubblica federale deve molto, se non quasi tutto, alla decisione di cancellare buona parte del debito accumulato dal Paese negli anni di guerra: dal 200% al 30%, un taglio che aiutò la democrazia nel cuore dell’Europa.
Ma “la remissione dei debiti” è fortemente osteggiata dai creditori, tedeschi ma non solo. Il ministro delle Finanze di Berlino, Wolfgang Schaeuble, ha già ammonito che gli accordi vanno rispettati: Atene non può decidere unilateralmente di violare quanto già sottoscritto dai suoi governi. Un gesto in quella direzione provocherà inevitabilmente l’uscita di Atene dall’unione monetaria, forse dalla stessa Unione europea.
Le conseguenze? Una drammatica svalutazione della “nuova dracma” a danno del potere d’acquisto del Paese che si troverà comunque a fronteggiare il debito estero già accumulato, pena un devastante embargo da parte dei vicini.
Naturalmente il dramma greco non si ferma alle porte del Peloponneso. Di sicuro la crisi complica il già non facile compito di Mario Draghi. All’inizio di dicembre il presidente della Bce ha preso atto della forte ostilità di diversi partner al Quantitative easing, pur giustificato dalla deflazione in corso che, tra le altre conseguenze, rende in pratica proibitivo il rientro dal debito dei Paesi membri. Basti dire che se l’inflazione nell’Ue fosse del 2%, come dovrebbe secondo gli obiettivi fissati per la Bce, il rapporto debito/Pil italiano avrebbe già imboccato la via della discesa.
Ma tre membri su sei del direttorio della banca centrale, più otto banchieri centrali su 18 hanno votato contro in scia a Jens Weidmann, il presidente della Bundesbank che continua a sostenere che il Qe non serve a nulla salvo mettere a repentaglio i fondi della stessa Bce. Se Qe dev’essere, dice la Bundesbank, è necessario che la Bce investa solo in titoli tripla A (cioè in Bund) oppure gli acquisti dovrebbe essere a carico delle singole banche centrali. Cari italiani, se volete dare una mano alle condizioni del credito all’economia nel vostro Paese, date mandato alla Banca d’Italia di investire in Btp e Bot. Noi siamo pronti ad accettare questa violazione delle regole, perché la Bce non rischierà un solo euro.
Più una provocazione che una proposta: passasse una soluzione del genere non avrebbe più senso parlare di una politica monetaria comune, che passa attraverso obiettivi concordati in comune. Al più, si potrebbe parlare di un accordo di cambi fissi, sulla falsariga del vecchio Sme, che non a caso si basava su bande di oscillazione tra varie monete. Insomma, se si scegliesse la via del Qe ridotto, sarebbe inevitabile la creazione di un euro di serie A contrapposto a uno di serie B.
Tutto questo, però, valeva prima dello scioglimento del Parlamento greco. Oggi il bivio è ben più drammatico. I più ottimisti ritengono che la prospettiva di una vittoria di Syriza alle urne possa spingere la Bce ad accelerare i tempi, concordando un’operazione a vasto raggio che eviti il temuto collasso degli equilibri dell’eurozona. Altri, più realisti, sono convinti che la Germania non darà mai il via libera ad acquisti di titoli della periferia, a partire dalla Grecia, con il rischio di ritrovarsi con titoli destinati a perder valore.
Insomma, entro fine gennaio rischiano di venire al pettine i principali nodi politici, economici e monetari accumulati in questi anni. Il debito greco è all’85% detenuto da istituzioni internazionali (Bce, Fmi ,ecc.) intervenuti nel 2010/11 per accollarsi i crediti delle banche tedesche e francesi che avevano finanziato con grande leggerezza e disinvoltura la Grecia negli anni del denaro facile, lucrando sul differenziale di interesse. L’operazione ha salvato creditori disinvolti, ma non ha posto le premesse per un recupero del debitore, sottoposto a uno stress violentissimo che ha pesantemente inciso sul livello di vita dei greci. Una ricetta applicata poi, in successione, a Portogallo, Irlanda e Spagna e che è stata poi estesa, in formula soft, all’Italia. Il risultato è stata la recessione del 2011/12 che probabilmente poteva essere in larga misura evitata.
Oggi i problemi si ripresentano, più gravi di prima. All’apparenza, la calma dei mercati finanziari lascia pensare che oggi la situazione sia migliore. Non è vero: l’Europa si è dotata di alcuni strumenti di dissuasione contro la speculazione (vedi gli Omt, i principi dell’unione bancaria) che rendono più pericoloso l’attacco alla moneta unica. Ma la disoccupazione dilagante e la pressione sui salari hanno intaccato la fiducia degli europei. Urge, dunque una risposta positiva.
È giusto ribadire in ogni sede il principio che gli impegni vanno rispettati, purché si offra una soluzione politica ai ragazzi di Atene oltre che a quelli campani. Ci vogliono presto misure non convenzionali, più efficaci del piano Juncker che si limita a distribuire risorse già esistenti con un effetto leva incredibile.
Proposte? Un grande piano per l’energia, in cui vengano premiati, al di fuori dei vincoli di bilancio, gli investimenti mirati al risanamento ambientale. Prima ancora, va data licenza alla Bei di emettere obbligazioni legate a piani di investimento in imprese e infrastrutture che dovranno essere acquistate dalla Bce e finire così nella pancia della banca centrale: se Weidmann non si fida di Btp e Bot, lo stesso non potrà fare per le autostrade, i porti e le centrali necessari per il futuro del Vecchio Continente. Altrimenti, il rischio è che la corsa dell’Europa, più che quella dell’euro, si avvicini al capolinea.