«Il dato politico più interessante che emerge dagli interlocutori vertici di maggioranza di questi giorni è la rottura dell’asse Lega-Tremonti. Fino ad ora, infatti, la linea di rigore tenuta dal ministro dell’Economia sui conti pubblici non solo era considerata necessaria dal Carroccio, ma veniva anche pubblicamente lodata. Oggi invece viene rimesso tutto in discussione». Una conseguenza, secondo Massimo Franco, di un risultato elettorale negativo e inaspettato, soprattutto nel partito di Umberto Bossi. «La convinzione dei leghisti era quella di incamerare i voti che Berlusconi avrebbe sicuramente perso. Tutto ciò non è avvenuto e così l’“amico Giulio” è diventato in un batter d’occhio il capro espiatorio per placare i malumori della base».
Venendo meno l’appoggio di Bossi per Tremonti sarà più difficile tenere testa al premier?
In realtà il ministro dell’Economia è molto meno debole di quanto sembri. Innanzitutto è garantito dal fatto che nelle condizioni in cui siamo è molto difficile fare una politica economica molto diversa dalla sua. In secondo luogo ha dei solidi appoggi nelle istituzioni di questo Paese, a partire dal Quirinale.
Se Berlusconi e Bossi sono davvero convinti che serva uno “strappo” rispetto alla politica di questi anni dovranno cercare di convincere Tremonti. Se dovessero optare invece per scelte più traumatiche sarebbero costretti a spiegare agli italiani perché l’hanno sostenuto a spada tratta in tutti questi anni.
Ma ci sono i margini per fargli cambiare idea?
Nonostante i tentativi di convincimento, più o meno minacciosi, direi di no.
Questa limitata capacità d’azione rischia di logorare la maggioranza?
Il fatto che in questi giorni non vengano prese decisioni vere ci conferma che è così. Viene continuamente ribadito che si andrà avanti, ma nulla più. D’altronde Umberto Bossi è ormai convinto di essere strettamente legato al destino del Cavaliere e sa che nessun’altra alleanza può dargli più di quanto ha ottenuto finora. Un ragionamento di grande realismo che però la base potrebbe anche non capire. In questo contesto entra in gioco l’idea di portare i ministeri al Nord.
Una proposta che rischia di aprire altri fronti nel Pdl, sia tra gli ex An che tra le componenti più legate al Meridione?
Ho l’impressione che nemmeno i dirigenti leghisti siano convinti di una mossa che rischia di certificare più la debolezza che la forza del Carroccio. Il problema infatti non è chiedere un provvedimento di questo tipo, ma decidere cosa fare quando arriverà la bocciatura. Non penso infatti che Berlusconi possa permettersi un cedimento del genere. Dentro il Pdl, a Roma come al Sud, il rapporto con la Lega è un nervo scoperto. Una crepa che si allarga e si restringe continuamente e che non è stata di certo sanata dalla manifestazione a base di polenta e vaccinara dell’anno scorso.
Come giudica invece le manovre interne al Pdl in vista del dopo Berlusconi?
Da un lato ciò che si muoveva già prima ora è soltanto più evidente e febbrile grazie a quell’aura di sconfitta che circonda la leadership del premier, dopo il risultato negativo delle amministrative. Dall’altro il riferimento alle primarie sembra soltanto un escamotage per far credere a tutti che chiunque si potrà candidare.
Secondo lei non sarà così?
Per ora sono troppe le contraddizioni su questa ipotetica successione che sta riuscendo a confondere le acque sul prossimo candidato di Palazzo Chigi. Detto questo, i movimenti centrifughi interni al Pdl sembrano comunque destinati a crescere.
Quanto inciderà in questo quadro l’esito dei referendum di domenica e lunedì?
Se i referendum dovessero passare sarebbe certamente un’impresa, dato che falliscono dal ’95. Il governo ha lasciato intelligentemente libertà di scelta, ma in caso di vittoria, questo non basterà ad assorbire l’urto.
(Carlo Melato)