Mercati nervosi ieri, tutta colpa della bocciatura da parte del Congresso della riforma del programma sanitario Obamacare, vista come un ostacolo sulla strada del pretenzioso piano fiscale presentato da Donald Trump in campagna elettorale. Proprio sicuri che sia così? «Il mercato se ne frega della sanità, i poveri si preoccupano della sanità», ha sentenziato un trader interpellato da Bloomberg. Vediamo di mettere la questione in prospettiva: l’aver visto bocciata l’eliminazione di Obamacare, di fatto, abbassa e non di poco la possibilità per l’amministrazione Trump di operare tagli fiscali. Si parla di qualcosa come 1 triliardo di dollari: ovvero, o si trovano entrate alternative pari a questa cifra per il fisco oppure addio abbassamento generalizzato delle aliquote per stimolare l’economia. È basico: o qualche voce nuova fa a operare l’off-set su quel triliardo oppure diventa dura. Ma davvero le Borse si preoccupano per questo? Sì, ma non per il triliardo in sé o per il sistema sanitario universalistico, di cui se ne fregano bellamente, ma per il fatto che adesso potrebbe essere a rischio anche il passaggio parlamentare della cosiddetta Border Adjustment Tax, secondo pilastro fiscale di Trump, la quale avrebbe dovuto generare un ulteriore off-setting di entrate pari a 1,18 triliardi di dollari: insomma, l’amministrazione Trump rischia di avere a breve un mal di testa da 2 e non da 1 triliardo di dollari. A quel punto, parte la cascata.
Ma c’è dell’altro per cui la Borsa sta inviando segnali di vero e proprio panico (per ora lo sentono i traders, quando sarà di dominio pubblico date un’occhiata a dove sarà arrivato lo spread): ce lo mostrano i due grafici a fondo pagina. Il primo ci dice che, da inizio anno, i titoli azionari delle banche Usa sono in rosso, la festa è finita. Il secondo, invece, conferma ciò che vi dico da tempo: ovvero che Trump non avrebbe permesso al dollaro di apprezzarsi, stante la necessità di non uccidere l’export Usa. Ed ecco che l’80% dei guadagni del cross del biglietto verde dall’elezione del tycoon alla Casa Bianca sono svaniti, questo nonostante tre rialzi dei tassi molto ravvicinati rispetto agli 11 anni di immobilismo della Fed e la prospettiva di almeno altri due ritocchi all’insù nell’anno in corso. Questo senza contare che negli Usa comincia a farsi largo la vulgata in base alla quale la Fed, al netto delle intenzioni di stabilizzare la sua politica monetaria, sarà invece costretta a invertire pesantemente la marcia, accodandosi a Bank of Japan e Banca centrale svizzera addirittura nell’acquisto diretto di titoli azionari per evitare che il mercato, lo stesso che sta già scontando le banche a picco, vada a schiantarsi.
Perché? Due le criticità. Primo, nel quarto trimestre del 2016 le aziende quotate sull’indice S&P 500 hanno operato il 7,2% in meno di buybacks rispetto all’anno precedente, passando da 145,9 miliardi a 135,3: insomma, il principale (e pressoché unico) driver dei rialzi azionari continua a perdere di potenza, creando di fatto un problema potenziale sul lungo termine ma una preoccupazione immediata nel breve, visto che chi opera deve pensare in anticipo ed evitare di restare con il cerino in mano. Secondo, in base al trend demografico e alle leggi che regolano la detenzione azionaria negli Usa, da qui al 2040 il trend è quello di una netta diminuzione di acquirenti di titoli a fronte di un aumento di venditori netti: certo, tutte problematiche che non finiranno sui tavoli domattina, ma, ripeto, chi opera sui mercati non ragiona alla giornata. Insomma, molti rischi potenziali e una certezza: il dollaro si sta letteralmente schiantando.
Bene per chi temeva il tantrum da biglietto verde in apprezzamento, ovvero l’aumento ingestibile del costo del debito per i Paesi particolarmente indebitati in dollari (leggi i mercati emergenti), ma vista dal punto di vista europeo, com’è gestibile questa situazione? Come la leggeranno in Germania, il cui record nella bilancia commerciale si basa sull’export, per quanto gli adoratori della Bundesbank spaccino ai quattro venti l’aumento della spesa per investimenti interni? È gestibile un euro in netto rafforzamento, quando ancora siano in regime di Qe e con due appuntamenti elettorali di primaria importanza alle porte? Certo, gli acquisti obbligazionari della Bce – sia sovrani che corporate – proseguiranno fino a fine anno, ma quali esigenze avranno le aziende europee da qui all’estate, se il trend valutario non cambierà? E la mia non è una domanda accademica, si basa sulla realtà di un dato emerso non più tardi della scorsa settimana.
Come vi avevo già detto nel mio articolo di venerdì, le banche europee hanno drenato qualcosa come 233,5 miliardi di euro di liquidità dalla Bce attraverso l’ultima asta Tltro, una cifra per superiore alle attese del mercato. Bene, più di un quarto di quella liquidità è andata alle banche italiane, 62,8 miliardi, metà dei quali alle sole Intesa Sanpaolo e Unicredit, mentre gli istituti francesi hanno inglobato poco meno: insomma, un fiume di denaro che nelle intenzioni ufficiali della Bce sarebbe dovuto servire a offrire credito per l’economia reale. D’altronde, l’Eurotower era certa che con tutto ciò che aveva comprato, a questo punto del percorso di allentamento monetario, gli istituti europei sarebbero stati abbastanza sani a livello di bilanci da poter inondare famiglie e imprese, dando il colpo finale alla ripresa dell’eurozona dopo la grande depressione. E invece così non è, perché non solo le banche europee non stanno meglio, ma, con il passare del tempo, stanno sempre peggio, schiacciate come sono dalla liability delle sofferenze: è inutile prendersi in giro, o l’Ue dà vita a una mega bad-bank per ripulire 1 triliardo di non-performing loans dai bilanci o più di qualche istituto non mangerà il panettone quest’anno. E, forse, nemmeno le caldarroste.
Certo, si è drenata tanta liquidità anche in vista dell’aumento dei tassi di interesse, ma la questione non cambia: qui, come negli Usa, il sistema bancario è con l’acqua alla gola un’altra volta. E la cosa grave è che il tutto sta succedendo in silenzio, senza che la gente si renda conto del rischio potenziale che stiamo correndo. Ogni cosa è interconnessa, valute in primis: avete idea a quanto ammontano le scommesse rialziste sul dollaro, tutte alimentate dai proclami muscolari di Donald Trump? A qualche triliardo di dollari, tutti sotto forma di sofisticati derivati o swaps, pronti a esplodere nei bilanci di qualche istituto che si crede too big to fail e che invece potrebbe andare a fare compagnia a Lehman Brothers. Siamo su un crinale decisamente pericoloso, perché la possibilità che qualcosa vada fuori controllo è altissima.
Volete che vi indichi, restando in Italia, quale può essere il proverbiale canarino nella miniera, il segnale in grado di dirci se veramente siamo sul precipizio? Se per caso, al netto dei soldi introitati dalle banche attraverso l’asta Tltro della Bce, il governo troverà i fondi necessari per i salvataggi di Alitalia, Mps e le banche venete, vuol dire che si sta puntellando ciò che si riesce del sistema, prima dell’arrivo della bufera. E per scoprirlo potrebbe volerci meno di quanto pensiate.