I venti della guerra delle valute evocata a Davos dal ministro del Tesoro Usa Steven Mnuchin (“il calo del dollaro è un toccasana”) sono arrivati ieri nei saloni della Bce. Mario Draghi, pur con la cautela tipica dei banchieri centrali, ha replicato che il rafforzamento dell’euro non è tanto la conseguenza del miglior clima economico dell’Eurozona, bensì è determinato da politiche adottate altrove. “Fare dichiarazioni sui tassi di cambio – ha aggiunto – finisce inevitabilmente con l’avere un effetto sui medesimi e dunque equivale a cercare di farli arrivare verso l’obiettivo desiderato”. In particolare, Draghi ha ricordato che “nello scorso ottobre ci siamo impegnati a non parlare delle valute altrui”, principio violato da Mnuchin.
La reazione non si è fatta attendere. Annusando aria di scontro, i mercati hanno spinto l’euro a nuovi massimi (1,2538) mentre piovevano le vendite sui listini azionari dell’Eurozona, specie quelli tedeschi. Poi il fenomeno è parzialmente rientrato. Il motivo? Gli operatori hanno preso atto che Draghi ha saputo sfruttare l’aggressività Usa per ribadire la politica accomodante dell’Eurotower. Il presidente della Bce ha avuto facile gioco nel respingere al mittente le richieste dei falchi su una chiusura anticipata del Qe o, quantomeno, di una conferma che il programma si chiuderà a settembre. Al contrario, ha ribadito Draghi, la politica monetaria della Bce “resterà accomodante”: i tassi restano invariati (fermo allo zero quello principale, a -0,40% quello sui depositi) e lo saranno per un lungo periodo di tempo “ben oltre l’orizzonte degli acquisti netti di attività”, ossia del programma di Quantitative easing che, in caso di necessità, potrebbe essere prolungato oltre settembre. In ogni caso “vi sono pochissime possibilità di un aumento dei tassi quest’anno”: una dichiarazione che ha auto l’effetto di far rientrare l’aumento della moneta unica dal massimo di 1,2543 a 1,247.
Certo, il banchiere ha dovuto concedere qualcosa alle richieste dei falchi. Per la prima volta si è fatto un accenno a un “possibile intervento di ricalibrazione” che per ora resta nel vago, visto che non basterà un aumento dell’inflazione core a modificare i piani dell’Eurotower. Ma, a confermare le tensioni che percorrono le Borse, è bastata questa affermazione a far schizzare al rialzo il rendimento delle obbligazioni: sul mercato il Bund a dieci anni si è immediatamente portato a 0,62%, massimo degli ultimi due anni, con effetto di trascinamento sui Btp schizzati all’1,95% con il rialzo di sei punti. Un segnale da non trascurare in vista di tempi più difficili che potrebbero arrivare presto.
Non è probabile che l’attuale rally delle Borse, accompagnato dal buon aumento della domanda per la manifattura europea, possa durare all’infinito. Le mosse dell’amministrazione Trump, dalla riforma fiscale al calo del dollaro, sembrano fatte apposta (e forse lo sono) per alimentare la bolla inondando i listini di liquidità e così ingraziarsi il favore degli operatori finanziari. Il rischio, ammonisce Ralph Dalio, uno dei più importanti gestori Usa dei fondi obbligazionari, è che il fenomeno possa comportare lo sboom dei titoli di Stato Usa con “effetti che non si vedono da 40 anni”.