Inclusione reddituale, esclusione culturale. Per richiedere il Rei — come con paradossalità onomastica è stato chiamato in sigla il nuovo reddito d’inclusione varato ieri dal Consiglio dei ministri — occorre una laurea in burocrazia. Per ottenere questo sussidio mensile, di circa 400 euro per 18 mesi, rinnovabile dopo un intervallo di 6, si potrà infatti fare domanda a partire dal prossimo primo dicembre, consegnando all’Inps una dichiarazione Isee precompilata. Quindi bisogna aver capito cos’è il Rei, sapere dov’è l’Inps e sapere — soprattutto — cos’è l’Isee e come si fa a dotarsene. E vabbè: è chiaro che ovunque i pretendenti al Rei incontreranno impiegati bravi e perbene, ce la faranno. Diversamente, no. Auguri.
Diciamo subito che parlar male del Rei è e resta, però, più infame che difficile. Come sparare sulla croce rossa. Una maramaldata. Richiamiamone le caratteristiche di base: si tratta di un sussidio mensile tra i 190 e i 485 euro che si stima possa alleviare i problemi di 400mila famiglie italiane, per un costo erariale annuo di 2 miliardi di euro. Potrà ottenerlo chi avrà un Isee non superiore ai 6mila euro. Ma non lo meriterà chi ha un patrimonio oltre i 20mila euro, esclusa l’eventuale prima casa, né chi sta ricevendo un altro sussidio di disoccupazione. Priorità sarà riconosciuta alle famiglie con figli minorenni o disabili, a donne in gravidanza e ai disoccupati ultra-cinquantenni. Chi avrà dei lavori, o lavoretti, potrà continuare a intascare il Rei a patto che con il reddito lavorativo non superi i parametri Isee…
Insomma, come burocrazia niente male. E d’altronde: nella patria dei disoccupati organizzati a vita, come fare a “fidarsi”? Inevitabile filtrare, burocratizzare, e quindi complicare e rallentare.
Nel progetto del legislatore, questo Rei dovrebbe superare i limiti macroscopici rivelati dalla Social Card inventata dal governo Berlusconi, che venne sottoutilizzata perché era complicata da capire e “ghettizzante”, cioè si faceva brutta figura a usarla. Non ci sono in verità molti motivi per credere che con questo Rei andrà diversamente, vedremo.
Però — ripetiamo — come parlarne male, in sé? Chi è povero in canna, con 400 euro al mese qualcosa fa. Il problema è dunque — come suol dirsi — “politico”. Ed è legittimo in questo senso e sotto quest’unico punto di vista parlarne male.
Proviamo a spiegarci. Che la nuova rivoluzione tecnologica in atto si prepari a porre all’Occidente un enorme problema di redistribuzione del reddito, è pacifico. Com’è stato autorevolmente ripetuto da vari osservatori autorevoli — primo fra tutti, il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco al recente Meeting di Rimini — la disuguaglianza nel mondo non aveva mai raggiunto i livelli attuali. Le otto persone fisiche più ricche che esistano sulla faccia della Terra assommano da sole tanto reddito quando i 3,5 miliardi di persone più povere. Follia pura. E per quanto alcuni “digitalebani” — talebani del digitale — strologhino del contrario, è di un’evidenza solare che per la prima volta la tecnologia non si sta limitando a sostituire le braccia, cioè le funzioni lavorative fisiche, ma anche le teste, e nemmeno solo le teste mnemoniche ma anche quelle creative. I computer ci stanno insomma già sostituendo dove ci sarebbe bisogno dell’uomo per creare e non solo ragionare. Ma quando saremo arrivati alla fabbrica automatica sia nelle funzioni produttive che in quelle creative e gestionali, chi mai percepirà da quell’attività che non svolge più ma che al suo posto viene svolta da macchine il reddito sufficiente per comprare i prodotti che da quella attività nasceranno, se non sarà un reddito “artificiale”?
Ebbene: il limite del Rei, concettuale e politico, è appunto questo: non nasce da una riflessione “sistemica” su ciò che una singola nazione ricca può fare per iniziare a gestire questo fenomeno, ma nasce dalle imminenti elezioni politiche. Non si introduce il Rei per sfamare un po’ di famiglie indigenti e preparare sistemi di inclusione sociale dei nuovi disoccupati, ma per rastrellare voti: poco, ma sicuro.
E’ del resto ciò che si prefigge di fare il Movimento 5 Stelle con la sua proposta di reddito di cittadinanza, che per la verità è un po’ più strategico-strutturale, solo che manca completamente di qualunque presupposto di fattibilità, visto che non prevede una vera copertura finanziaria nei conti dello Stato: d’altronde, non essendo al governo, possono dire ciò che vogliono senza tema di smentita.
Ma, per concludere tornando ai fatti, il progetto “Carta Rei” ha un aspetto insieme meritorio e velleitario: chi riceverà il sussidio dovrebbe ricevere anche un supporto per mettere in atto “un ‘progetto personalizzato’ volto al superamento della condizione di povertà”. Cioè? Non si capisce nulla in merito, salvo — vagamente — che i servizi sociali dei comuni dovrebbero farsi carico di assegnare un “progetto personalizzato” di riscatto socio-economico a tutti i beneficiari del Rei, in modo da aiutarli, un domani, a non aver più bisogno del sussidio. Di nuovo: come parlar male di un simile piano? Molto difficile, invece, sarà parlar bene della sua verosimile, possibile attuazione.