La pausa cominciata prima di Natale, è finita. Com’era facile prevedere (lo avevamo scritto proprio su queste pagine all’inizio dell’anno), sui mercati finanziari è tornata l’incertezza, che porta con sé una nuova instabilità. Perché? Si dice che questa volta la politica ci abbia messo lo zampino più che nel passato. Mariano Rajoy, invischiato in un oscuro affare di mazzette, rischia il posto. Il primo ministro non si dimette, ma i buoni del Tesoro spagnoli tornano a ballare. Fino a che punto spingeranno i mercati? Fino all’estremo come è accaduto in Italia nel 2011? Ma se cade Rajoy cosa succede: si vota di nuovo senza che gli equilibri politici di fondo siano cambiati? In tal caso, anche la Spagna finirebbe nella palude della ingovernabilità. Là dove rischia di cadere l’Italia.
Le promesse sull’Imu giovano a Berlusconi e in ogni caso il Cavaliere è riuscito a far risalire il Pdl mobilitando gli elettori che fino a due mesi fa avevano deciso di starsene a casa pur di non votare Monti o Bersani (Grillo piace forse alla pancia populista, ma non ai conservatori e ai moderati). Con Monti che gravita su un livello inferiore alle sue stesse aspettative e un centrosinistra che rischia seriamente di non avere la maggioranza al Senato, quale governo uscirà dalle urne il 25 febbraio? Solo una grande coalizione alla tedesca potrebbe assicurare una certa stabilità, ma è anatema per tutti. Oggi come oggi, dopo si vedrà.
A questo punto, è quasi inevitabile che il debito sovrano dell’Italia torni a ballare, in perfetta simmetria con quello spagnolo. Certo, c’è il Montepaschi, c’è l’orgia delle promesse spendi e spandi, ma se vogliamo cercare una logica in questa follia, dobbiamo guardare ai fondamentali, nei quali la politica (intesa come capacità di governare un Paese) ha un ruolo importante. Chi non vuol farsi obnubilare dal circo mediatico deve cercare sotto la cenere. E lì cova un bel focherello. Cominciamo dalla scena internazionale.
Gli Stati Uniti che crescevano ininterrottamente da tre anni e mezzo, nell’ultimo trimestre 2012 si sono fermati. Gli analisti sono divisi: alcuni pensano che sia uno stop momentaneo, infatti corrisponde al periodo elettorale e ai rischi per il fiscal cliff; altri sottolineano che nessuno dei problemi di fondo è stato risolto a cominciare dal debito: si va avanti di rinvio in rinvio e il conflitto nel Congresso e con la Casa Bianca impedisce di sapere quale sarà la politica economica di Obama nel secondo mandato. La Cina sembra aver ripreso lena, ma la locomotiva asiatica nel suo insieme sbuffa, mentre nell’America del sud si accumulano nubi di tempesta: il dopo Chavez in Venezuela; le follie di Cristina Kirchner, la nuova Evita, in Argentina; il Brasile surriscaldato e “inflazionato”. Ma l’incognita peggiore viene dall’Europa, vera zavorra delle tre grandi aree in cui si divide l’economia-mondo. Ora che anche la Germania s’avvicina a una crescita zero, la congiuntura europea rischia di trascinare in basso l’intero prodotto lordo del pianeta.
In alcuni paesi chiave l’aggiustamento, come viene chiamato, non è compiuto. La Spagna non ha smaltito la sbornia immobiliare e non ha risanato le banche, nonostante i prestiti europei. In Italia il pareggio di bilancio si allontana per colpa di una recessione peggiore del previsto. Il nostro Paese è caduto in un circolo vizioso: per ridurre il debito è stata tirata la cinghia con una politica fiscale durissima, così facendo si è contratta la domanda pubblica mentre scendeva la domanda privata. La contemporanea riduzione dell’indebitamento dello Stato, delle famiglie e delle imprese ha provocato un effetto palla di neve. Sia chiaro, il debito pubblico va tagliato, ma la stretta andava compensata dal lato degli investimenti, soprattutto privati. Così non è avvenuto. Colpa delle troppe tasse, si poteva ottenere di più con la spending review. Vero, ma attenzione, anche riducendo le spese si sottrae domanda (pubblica in questo caso).
I manuali di politica economica dicono che, in questo caso, il sollievo deve venire dalla politica monetaria: interessi bassi e liquidità abbondante spingono l’investimento privato. Invece così non è successo. I tassi reali sono a zero, la moneta abbonda, ma non fluisce verso le imprese e le famiglie; viene trattenuta per motivi precauzionali, serve a comperare titoli di stato nei paesi in cui il debito sovrano è a rischio e a tamponare le falle nei bilanci delle banche. È la novità negativa che distingue questa crisi dalle altre. I motivi precauzionali sono legati alle aspettative anche politiche. E qui l’incertezza e l’ingovernabilità esercitano una funzione fondamentale.
Ma pesa anche la mancanza di un valido riferimento per la politica economica. I keynesiani addossano tutte le colpe all’austerità e chiedono ai governi interventi che essi non sono in grado di sopportare: mancano le risorse e mancano pure le idee. I liberisti sperano di rimettere in moto gli spiriti animali tagliando le tasse. E tuttavia questi spiriti languono: la crisi dal 2008 in poi ha ridotto del 50-60% i valori delle imprese, molte sono state costrette a chiudere, altre hanno cambiato ragione sociale, si sono rifugiate nel mercato protetto delle tariffe pubbliche. Non è detto che se avessero a disposizione più quattrini li investirebbero in prodotti innovativi e competitivi.
La grande crisi del 2008 ha reso inefficaci gli attrezzi che i policy makers avevano nella loro cassetta. Chi lo ha scritto è stato accusato di pragmatismo opportunistico. Invece, la realtà di ogni giorno lo conferma. Purtroppo, oggi non ci sono pensatori di riferimento in grado di offrire un nuovo paradigma. Quindi, non resta che andare avanti per prove ed errori, come del resto insegna ogni buon approccio scientifico. Uno dopo l’altro, occorre rimuovere i macigni e aprire la strada a un nuovo sviluppo. Italia e Spagna debbono finire la cura, bisogna dirlo e ripeterlo senza stancarsi. Ma occorre che la seconda fase del risanamento adotti misure selettive di espansione: alleggerimento della pressione fiscale, aumento dei posti di lavoro e dei salari legati alla produttività.
Intanto, la Germania deve espandere la domanda interna, accettando nello stesso tempo che la Banca centrale europea possa utilizzare in pieno i nuovi strumenti dei quali si è dotata. Anche la Francia ha un ruolo da svolgere in questa ideale distribuzione dei compiti nell’Eurolandia: battere i pugni per arrivare a una svalutazione dell’euro. Anche se Berlino comincerà a sbraitare, Parigi ha gli argomenti migliori da far valere, non escluso il ruolo internazionale che ha recuperato con i successi in Mali. Nel mondo reale, gli equilibri valutari sono anche funzione degli equilibri di potenza.
Portare l’euro a livelli più realistici è un obiettivo da raggiungere in molti modi e la via maestra è cambiare politica economica, ma si può cercare un accordo internazionale tra le grandi monete per evitare svalutazioni competitive (non solo dello yen e del renminbi, ma soprattutto del dollaro); ed è possibile anche far ricorso a interventi della Bce. La banca centrale, del resto, dovrebbe alleggerire le banche dal peso dei titoli ad alto rischio (pubblici e privati), così come ha fatto la Federal Reserve, rimettendo in moto il circuito del credito.
Ma c’è un ruolo che spetta agli imprenditori, soprattutto ai grandi. Non si può solo chiedere ai governi, superare la crisi è uno sforzo collettivo. Le compagnie americane hanno cominciato un processo di riappropriazione del valore aggiunto, riportando in casa la produzione (non solo la progettazione e il marketing) in settori trainanti. Non è la vecchia rinazionalizzazione produttiva, tanto meno una reazione anti-globalista. È che la delocalizzazione ha fatto il suo tempo. Oggi si va all’estero (si pensi alla Cina o all’India) per servire il mercato interno, non più solo per risparmiare sui salari. E la nuova divisione internazionale del lavoro vede sempre più Europa, Stati Uniti (e in parte Giappone) specializzarsi nella produzione di alta gamma e in quello snodo tra industria e servizi che è improprio definire terziario. Questa riconversione va accompagnata da politiche dell’offerta, non sgravi fiscali o finanziamenti a fondo perduto, ma miglioramento dei fattori di produzione, a cominciare da informazione e tecnologia.
È un progetto di medio periodo. Guai a credere, però, che non c’entri nulla con la guerra dello spread. Più un Paese si avvia lungo questa nuova dimensione dell’economia, più credibili appaiono i suoi sforzi e più interessante diventa scommettere su di lui investendo i risparmi delle vedove scozzesi o degli impiegati della California.
Un partito politico e un governo che sappia offrire questa prospettiva, non a chiacchiere, ma con programmi realistici, potrà sfidare gli gnomi dello spread. Ce n’è qualcuno in giro?