Che la Legge di stabilità 2017 sia carica di contenuti elettoralistici non è una critica: è un fatto. Renzi lo negherebbe, anzi lo ha già negato, ma è evidente come la luce del sole. Però questo non toglie che le misure inserite per strappare consenso possano essere in sé opportune, perfino sagge e proficue: e allora ben vengano, non è interesse di nessuno sottoporle a questa sorta di schermografia che è il processo alle intenzioni. Tra queste misure rientra senz’altro l’abolizione di Equitalia, nel senso “metodologico” che a essa è stato dato. Cancellare un’agenzia di riscossione che, negli anni di Attilio Befera capo del fisco italiano, aveva acquisito la fama, e i connotati, dell’esattore aggressivo, pronto a colpire per 200 euro come per 200.000, senza sapere né voler distinguere tra gli errori in buona fede, dovuti soprattutto alla complessità della normativa fiscale, e le elusioni deliberate, o le vere e proprie evasioni: beh, questo è giusto. Abbasso Equitalia, chiudiamo Equitalia. E introduciamo altri due condoni, pur chiamandoli con nomi diversi: uno, è quello delle vecchie cartelle esattoriali gravate di sanzioni e sovrattasse; l’altro è il secondo su capitali illecitamente accumulati all’estero, la nuova voluntary disclosure.
Tutto bene. Peccato che lo scorso anno, nello “storytelling” della lotta all’evasione, ci venne presentata come “arma totale” l’anagrafe dei conti correnti, ovvero il diritto degli uffici fiscali di entrare nei segreti bancari dei contribuenti per prenderli in castagna. Il massimo dell’analiticità accertativa. E adesso? Adesso si torna al “mettiamoci d’accordo”. Sul pregresso, con i due condoni, e sul futuro, con un fisco che ti scrive e ti chiede: “A me pare che tu dovresti pagare di più, che ne pensi?”, come avviene nei paesi fiscalmente civili e meno esosi, quale l’Italia non è.
Ma allora la linea qual è? Accertare i centesimi, frugando nei conti correnti e circoscrivendo così alla mera catena del contante il regno del nero; o concordare la “giusta tassa” con ogni singolo contribuente? Come se vivessimo in Svizzera? La verità è che questo pendolo tra il massimo dell’analisi ispettiva e il massimo delle valutazioni a spanne in Italia c’è sempre stato.
Nell’84, ad esempio, l’allora ministro delle Finanze Bruno Visentini, fresco reduce dalla carica di presidente dell’Olivetti di Carlo De Benedetti, introdusse l’obbligo per gli esercenti di installare i registratori di cassa (prodotti, tra l’altro, anche dall’Olivetti: ma certamente fu un caso). Il registratore di cassa fu l’odiato simbolo della pretesa del fisco di far “tracciare” le transazioni ai commercianti per poter fare dei blitz in bottega e coglierli sul fatto dell’evasione. Già: come se fosse verosimile che vigili e finanzieri entrassero regolarmente nei negozi a fare controlli davvero antagonisti e non, piuttosto, compromissori.
Fatto sta che nonostante le furiose proteste (con serrata!) dei commercianti, la norma passò: e non servì perfettamente a nulla. Tanto che nel ’92, con pendolarismo perfetto, il governo Amato introdusse la minumum tax, cioè una norma per la quale chi operava in una certa categoria del lavoro autonomo o d’impresa non poteva non pagare una tassa minima determinata dall’amministrazione finanziaria, e l’onere della prova del contrario ricadeva sull’interessato, richiedendo uno sforzo straordinario di documentazione. Era l’opposto dell’analiticità, si procedeva sommariamente ad affermare che un panettiere con due forni e cento metri quadrati tra laboratorio e negozio “non poteva non guadagnare” almeno tot. Da quel ceppo logico discesero poi gli studi di settore, che ancora allignano: una specie di forfettone determinato categoria per categoria, con la concertazione tra Erario e rappresentanti associativi. Anch’essi, inutili, stando ai dati moscissimi sul gettito della lotta all’evasione.
Con le novità di questi giorni, lo Stato tassatore si conferma come quel personaggio di De Andrè, Don Raffaè, cantava: “Si costerna, s’indigna, s’impegna, poi getta la spugna con gran dignità”. O senza dignità. Il messaggio è chiaro: con l’anagrafe dei conti correnti, il “whisteblowing” (la “spiata” fiscale legalizzata), e i ceppi di Equitalia esattrice crudele non si è risolto nulla: “‘amo scherzato, mettemose d’accordo, che è mejo”. E forse è vero, che è meglio: peccato che chi finora non ha pagato le cartelle sfidando le maxi-sanzioni ha avuto ancora una volta ragione a confronto con i fessi che hanno pagato; chi ha esportato i capitali e non li ha rimpatriati con la prima “voluntary deiclosure” temendo che quella sanatoria celasse, ad esempio, l’insidia delle istruttorie penali successive ha fatto bene, potrà aderire l’anno prossimo e sarà assai più tranquillo dei “colleghi” più solerti o timorati sulla scorta di una giurisprudenza ormai sedimentata. Sia ben chiaro: probabilmente è giusto così, o “meno ingiusto”. Ma è un po’ deprimente, senza dubbio.