Dal 1 ottobre scatterà l’incremento dell’Iva al 22% in quanto i fondi per impedire l’appesantimento della pressione fiscale non sono sufficienti. A dirlo è stato il ministro dell’Economia, Fabrizio Saccomanni, dopo che il vicepresidente della Commissione Ue, Olli Rehn, ha ribadito come il limite del 3% nel rapporto deficit/Pil sia “inviolabile” per l’Italia. Per Luigi Campiglio, professore di Politica economica all’Università Cattolica di Milano, «in Europa vigono due pesi e due misure e non si tiene conto del fatto che l’Iva è un’imposta fortemente regressiva in quanto colpisce con particolare durezza le famiglie più povere. Il 30% degli italiani non ha risparmi o è indebitato, e far crescere il prelievo fiscale sui consumi porterebbe a un’ulteriore contrazione della domanda interna».
Professor Campiglio, è davvero inevitabile questo ulteriore aumento delle tasse?
È difficile dire in questo momento se e quanto sia inevitabile un aumento dell’Iva, poiché i dati di bilancio non sono pubblici ma a disposizione soltanto del ministro dell’Economia. In questa fase ciò di cui abbiamo bisogno è che l’economia ritorni a crescere, perché in questo modo i diversi problemi dell’Italia, incluso il vincolo del 3% nel rapporto deficit/Pil, diventerebbero più facili da gestire.
Quali sarebbero gli effetti di un’aliquota Iva al 22% dal punto di vista dell’equità fiscale?
Alcuni giorni fa, in occasione della Settimana sociale dei cattolici, ho presentato un lavoro che approfondisce con grande dettaglio la questione della pressione fiscale nei confronti delle famiglie. Per la metà più povera del totale delle famiglie in Italia, l’aumento dell’Iva è un problema, in quanto è un’imposta fortemente regressiva che colpisce con maggior forza proprio i redditi più bassi.
Tutto ciò quali conseguenze produce per la crescita?
Occorre tener conto del fatto che per il 30% delle famiglie italiane la capacità di risparmio è pari a zero, se non addirittura negativa. Se l’aumento dell’Iva si trasferisce sui prezzi, si mettono in difficoltà le famiglie in maggiore stato di bisogno. Queste ultime da ormai alcuni anni sono già state particolarmente vincolate, proprio mentre potrebbero esprimere la loro importanza per la domanda interna. L’innalzamento dell’aliquota Iva si tradurrebbe dunque in un aumento della pressione fiscale proprio per le famiglie con un reddito più basso.
Negli ultimi anni chi ha pagato le conseguenze più pesanti per la mancata crescita dell’Italia?
Come emerge da un’altra ricerca che ho realizzato di recente, dal 1999 a oggi il tasso d’inflazione per il 10% delle famiglie con il reddito più basso è stato maggiore del tasso d’inflazione per le famiglie con il reddito più alto.
Come si spiega questo dato di per sé abbastanza sorprendente?
Tutto ciò non avviene per motivi misteriosi, ma per il fatto che il paniere di spesa per le famiglie con reddito più basso è maggiormente composto da beni e servizi che in questi dieci anni sono aumentati di più. Penso, per esempio, agli affitti e ai beni alimentari. Per le famiglie con un reddito più alto la spesa include non soltanto queste voci, ma anche una quota molto significativa di beni durevoli per i quali l’aumento è stato più contenuto grazie alla crescita della produttività dei manufatti.
E quindi?
Per almeno il 30% delle famiglie, le quali non hanno risparmi, la crescita dell’Iva si traduce in un aumento dei prezzi e, in assenza di risparmi cui attingere, in un’ulteriore contrazione della domanda interna. È quindi capace di soffocare i germogli di ripresa che qua e là iniziano a vedersi.
Olli Rehn ha dichiarato che il limite del 3% nel rapporto deficit/Pil è inviolabile per l’Italia, mentre Spagna e Paesi Bassi possono superarlo senza problemi. In Europa esistono due pesi e due misure?
Sì, purtroppo ormai ci sono due pesi e due misure. Germania e Francia viaggiano a condizioni relativamente più vantaggiose sul piano del credito, mentre l’Italia, e in parte anche la Spagna, sono inutilmente messe in difficoltà. Lorenzo Bini Smaghi, nel libro “Morire d’austerità”, spiega bene come la stessa Berlino nel 2003 abbia rischiato le sanzioni per deficit eccessivo, ma poi le abbia evitate soltanto perché era la Germania. L’accanimento Ue sull’Italia è controproducente e rischia di frenare le nostre possibilità di ripresa.
(Pietro Vernizzi)