Obama che chiede i danni alla Standard and Poor’s è… diciamolo, un controsenso. Ma come, tutto il resto del mondo attacca Standard and Poor’s, accusandola di essere una bieca emanazione degli interessi finanziari dei “padroni del vapore” americani, e il capo degli americani si accoda al coro? Non è possibile: cosa c’è che non torna?
Semplice: non torna il fatto che Barack Obama, brillantissimo avvocato civilista laureato ad Harvard, le banche le odia e le ama. Ricambiato. Da una parte esprime il meglio della stessa identica cultura nel cui crogiuolo si è formata la classe dirigente bancaria americana; dall’altro sa, da democratico, che lo strapotere delle banche nel sistema Usa è stato ed è scandalosamente eccessivo. Da una parte anela al consenso del ceto bancario, dall’altra parte è costretto a combatterlo.
Quando Obama ha vinto le elezioni del secondo mandato, la Goldman Sachs e le altre grandi banche della “cupola” del potere finanziario mondiale hanno perso. Non è una deduzione: è un calcolo. La Goldman ha finanziato Romney con 1,8 milioni di dollari (una briciola per la sua ricchezza, ma tanti soldi per il pur ricco sfidante) e ha fatto a Barack un’elemosina da 136mila dollari. Secondo i dati resi noti dai media americani, in particolare, nel 2008 JP Morgan, Morgan Stanley, Citigroup e Bank of America donarono complessivamente a Obama 3 milioni e mezzo di dollari e l’anno scorso soltanto 650.000, mentre hanno firmato allo sfidante Romney uno “cheque” cinque volte più grasso, da 3,3 milioni di dollari.
I tanti “delusi da Obama”, che al suo insediamento – in piena crisi finanziaria da “bolla” dei derivati – aveva strapromesso di moralizzare Wall Street e poi ha fatto ben poco, hanno di che rincuorarsi: se le banche hanno vissuto la sconfitta di Romney come una propria, è buon segno. Ed ecco un primo segnale concreto, l’attacco a S&P’s. Un modo per dire che questi pseudo-gendarmi dei conti pubblici e privati sono degli apprendisti stregoni ubriachi, tenuti su insieme soltanto dalla convenzione a suo tempo sottoscritta dai loro associati.
Ma per capire quanto sia assoluto il potere che Goldman Sachs, JP Morgan, Citigroup e altre due o tre sentono di avere negli States basta misurare quanto poco sia bastato che Obama facesse contro di loro – pochissimo rispetto alle speranze e al necessario – per alienarsene le simpatie. Le ha fatte infuriare il Dodd-Frank Act, la legge di riforma della finanza voluta dalla Casa Bianca che vieta alle banche investimenti speculativi coi mezzi propri, una proibizione per la quale Goldman perderà il 10% degli utili. L’altro scandalo è il calo dei bonus dei manager bancari, connesso al minor margine di guadagno a sua volta indotto da alcuni regolamenti più rigidi sulla governance bancaria, varati negli ultimi quattro anni.
C’è stato addirittura un omaccione della finanza speculativa, il manager degli hedge fung Leon Cooperman, che ha attaccato il Presidente accusandolo di voler fare la “lotta di classe” contro le banche. La task-force governativa che sta ancora indagando (su questa materia anche gli americani hanno tempi italiani) sui responsabili della crisi del 2008 ha messo nel mirino la Bear Stearns, cioè la controllante della JP Morgan, e minaccia di estendere ad altri istituti la propria azione: apriti cielo, se si pensa che proprio il capo della JP Morgan, il chiacchieratissimo Jamie Dimon, oltretutto nel ciclone anche per lo scandalo delle manipolazione dell’indice Libor, ha sostenuto anche al Congresso che nuovi regolamenti sul settore della finanza non sarebbero necessari.
Cosa temono, dunque, dall’Obama-bis i padroni del vapore di Wall Street? Temono due ordini di azioni: il primo è quello tattico, che banalmente consiste nello snidare e punire i tanti ladri che speculano sulle loro posizioni contro gli interessi dei clienti solo per massimizzare i propri profitti personali, che spesso coincidono con quelli delle banche in cui lavorano; il secondo è quello strategico, cioè la possibilità che la Casa Bianca promuova una riforma globale del sistema, restringendo i margini d’azione della finanza sofisticata, dei derivati tossici – la cui ciclopica dimensione è tutt’altro che diminuita, dal 2008 a oggi – e piloti un atterraggio morbido in zone più sicure, che riducano gli spaventosi rischi sistemici che ci sovrastano (“ci”, perché la cosa riguarda tutto il mondo, non certo solo gli Stati Uniti) e insieme riducano i profitti delle banche.
Forse Obama non vuole neanche osare tanto, comunque difficilmente ci riuscirebbe perché non ha dalla sua la rivoluzionaria compattezza politica che gli servirebbe al Congresso per imporre una simile discontinuità, ma è questo che le banche temono come i bambini l’uomo nero. O abbronzato, avrebbe detto qualcuno in Italia…
Da questo contesto alla causa da 5 miliardi di dollari (almeno) intentata da Obama contro una delle due ”regine del rating” il passo in effetti era breve. Ma questo tragitto è appena iniziato, e chissà se il traguardo vedrà prevalere Obama oppure no.