Matteo Renzi è volato in America a incassare l’assist di Barack Obama per il referendum del 4 dicembre e, ovviamente, la retorica è scorsa a fiumi da parte di tutti e due i protagonisti. Certamente avere dalla propria parte l’uomo più potente al mondo rappresenta un bello spot – «Il Sì al referendum aiuterà l’Italia, mi auguro che Renzi vada avanti», ha dichiarato Obama – e anche l’Unione europea sta mettendoci del suo per favorire il governo. Ieri è infatti arrivato sulle scrivanie europee il Progetto di bilancio dell’Italia, il documento che sintetizza la legge di Bilancio per il 2017 (quest’ultima inizierà l’iter parlamentare domani) e le stime sui conti pubblici.
Formalmente, infatti, la Commissione Ue ha mostrato il volto cattivo al governo, visto che ha fatto sapere in via informale che non piacciono le coperture “una tantum” individuate dal Tesoro, mentre il deficit/Pil posto al 2,3% «non è il numero concordato», ha fatto sapere il commissario europeo, Pierre Moscovici. Nel mirino europeo c’è anche la riapertura della voluntary disclosure, la sanatoria fiscale, con l’estensione della finestra per mettersi in regola a chi detiene risorse in contanti in Italia, il famoso “lodo Corona” evocato da Pier Luigi Bersani nel suo polemico intervento su Facebook. Insomma, un bel condono, ma non essendoci al governo Berlusconi, si usano tecnicismi inglesi per evitare imbarazzi al premier. Il governo spiega in poche parole perché ha deciso di far salire l’obiettivo di deficit/Pil al 2,3%, usando tre quarti del margine di 0,4 punti che il Parlamento aveva autorizzato a prendersi, per «affrontare le spese straordinarie legate all’immigrazione, il recente terremoto in Italia centrale e un piano di investimenti antisismico per gli edifici e le infrastrutture che non può più essere rimandato considerata la frequenza con cui si verificano terremoti distruttivi». Quindi, migranti e terremoto sono fuori dal computo.
C’è però un altro nodo che grava come una spada di Damocle sui conti che Roma ha inviato a Bruxelles: le coperture. Nella bozza indicata rientrano infatti «tagli di spesa e incrementi di gettito realizzati attraverso il miglioramento della compliance fiscale, escludendo aumenti di imposte e anzi proseguendo nella loro riduzione», oltre a risparmi attesi «da un nuovo ciclo di Spending Review e dalla riduzione di vari stanziamenti di bilancio. L’aumento di gettito sarà conseguito attraverso l’efficientamento meccanismi di riscossione dell’Iva secondo le direttrici già attuate con successo nel 2016, il riallineamento del tasso di riferimento dell’Ace (la detassazione degli utili reinvestiti) ai tassi di mercato, l’estensione della voluntary disclosure e le aste per le frequenze». In parole povere, fumo.
Non ci sono coperture concrete, tangibili, sono previsioni di ingresso la cui quantificazione è impossibile: quanto rientrerà dalla voluntary disclosure? Nessuno può dirlo. E dall’efficientamento della riscossione dell’Iva? Nessuno può dirlo. La spending review, poi, sconfina nel ridicolo, visto che finora l’unico risultato che ha ottenuto è stato di bruciare tre commissari a essa dedicati. Quando queste cose le faceva Tremonti, lo crocifiggevano. Insomma, tira brutta aria, visto che il cosiddetto Draft Budgetary Plan dovrà esser vagliato nel giro di due settimane dai tecnici di Bruxelles.
Ma guarda un po’, sempre ieri – mentre Renzi gongolava tronfio accanto ad Obama – dalla Commissione Ue si sono premurati di far sapere che un parere sulla manovra – e quindi rilievi ed eventuale bocciatura – non arriveranno prima della fine di novembre. Scommettete che arriveranno dopo il 4 dicembre? Insomma, se Bruxelles in pubblico fa la faccia feroce per non dover ammettere di essere totalmente impotente di fronte al rischio sistemico rappresentato da un potenziale attacco speculativo contro l’Italia, in privato garantisce un assist perfetto a Renzi: evitare polemiche sulla Legge di stabilità prima del referendum, permettendo al governo di elargire e spacciare al pubblico le sue mance (14ma per i pensionati, bonus da 500 euro per i diciottenni, niente tagli, ma anzi aumento degli stanziamenti alla Sanità, abolizione di Equitalia) per ingraziarsi i voti degli indecisi. Parliamoci chiaro, quelle prebende sono elargite senza che vi sia copertura, se non generiche voci di taglio o di extra introito che non hanno alcuna base scientifica e concreta. Siamo più o meno al metodo Achille Lauro 2.0.
Purtroppo, però, la realtà è testarda e per quanto la si voglia nascondere sotto il tappeto, riemerge sempre. A confermarlo non è un ente nemico del governo, bensì l’Inps, i cui dati pubblicati sempre ieri dovrebbero far venire i brividi e non consentire troppi sorrisi in favore di telecamera al premier in visita a Washington (dove ha portato tre specialisti in relazioni internazionali come Roberto Benigni, Paolo Sorrentino e Giorgio Armani). E cosa ci dice il nostro istituto previdenziale? Che la spinta del Jobs Act e – soprattutto – delle decontribuzioni per le assunzioni a tempo indeterminato perde vigore e la dinamica reale del lavoro ne risente. Di più, alla faccia dei dati governativi, quelli che conteggiano come occupato chi riceve un voucher da 7,5 euro alla settimana, aumentano i licenziamenti «per giusta causa e per giustificato motivo soggettivo». In due anni sono passati da 35mila a 46mila, il 31% in più. Chissà cosa diranno adesso i soloni che si dicevano convinti che l’abolizione dell’articolo 18 non avrebbe fatto aumentare i licenziamenti, ma le assunzioni: la riforma del lavoro targata Renzi ha infatti allargato le maglie di intervento per le aziende, le quali abbassano i costi tagliando personale.
Se tra il 2014 e il 2015, infatti, il dato è sostanzialmente invariato, il boom (+10mila licenziamenti) si registra proprio negli ultimi 12 mesi. Casualmente, le norme del Jobs Act si applicano solo agli assunti dopo l’entrata in vigore della riforma. E il tasso di disoccupazione? Fermo all’11,4%. Nei primi otto mesi dell’anno, le assunzioni sono calate dell’8,5% a quota 3,782 milioni: i contratti a tempo indeterminato sono stati 800mila, in netto calo rispetto agli 1,2 milioni dello scorso anno e meno anche dello stesso periodo del 2014, quando a marzo entrò in vigore il Jobs Act.
Analoghe considerazioni possono essere sviluppate per la contrazione del flusso di trasformazioni a tempo indeterminato (-35,4%): fino allo scorso anno, infatti, i datori di lavoro potevano beneficiare di uno sconto fiscale di 24mila euro in tre anni per ogni neoassunti, mentre dal 2016 lo sconto è sceso a 3.250 euro l’anno. Puf, la voglia di assumere è sparirà e il miracolo renziano si è rivelato ciò che era: un provvedimento una tantum senza alcuna efficacia ciclica. E attenzione alle dinamiche nelle dinamiche: ad agosto, le assunzioni a tempo indeterminato sono state solo il 24,9% dei nuovi rapporti di lavoro, il dato mensile più basso dell’ultimo biennio.
Insomma, a fronte di un’occupazione che non riparte, non calano neppure dimissioni e licenziamenti. Sono questi i frutti delle riforme che Obama ha tanto lodato? Ma, come dice il detto, in cauda venenum: tra gennaio e agosto di quest’anno sono stati venduti 96,6 milioni di voucher destinati al pagamento delle prestazioni di lavoro, del valore nominale di 10 euro, con un incremento, rispetto ai primi otto mesi del 2015, pari al 35,9%. Calcolando che i buoni lavoro sono stati sperimentati dall’agosto del 2008, da allora al 30 giugno di quest’anno ne sono stati staccati 347,2 milioni. I dati Inps parlano chiaro: «Il voucher ha registrato un tasso di crescita del 66% tra il 2014 e il 2015, cui va aggiunto un ulteriore +40% tra i primi sei mesi del 2015 e i primi sei mesi del 2016».
Direte voi, meglio il voucher che il lavoro nero. Vero, ma quando il voucher è l’unica forma di retribuzione – e quindi di occupazione – su cui può contare un Paese per non sprofondare del tutto nella crisi più nera, io tendo a non riuscire a vedere il bicchiere mezzo pieno. Forse, bisognerebbe che la classe politica cominciasse a chiedere conto a quella imprenditoriale, perché se la frontiera è quella del volontariato e del lavoro non retribuito, conviene attrezzarci. Ma si sa, quando si hanno sponsor di un certo livello, ci si può permettere anche propaganda a reti unificate. Prepariamoci, però: perché il conto di quest’orgia di mance, ricette fallimentari e conti pubblici allegri la pagheremo a gennaio, a referendum acquisito. E saranno lacrime e sangue, perché allora la Commissione Ue non avrà alcun elettore da blandire ma solo contribuenti da massacrare. E il rottamatore avrà buon gioco nell’usare la classifica formuletta del gioco di sponda: ce lo chiede l’Europa.