La disfatta alle amministrative, prima, la disfatta referendaria, poi. Ma solamente dopo mesi di lento rosolare. Mesi di vivacchiamento, dove il governo, costantemente in bilico su una lama di rasoio, ha dovuto guardarsi le spalle da eventuali (e decisive) fuoriuscite eventuali (le ennesime), mentre la maggioranza usava le energie residuali per garantirsi una rendita minima di onorevoli utili alla sopravvivenza. Pochi deputati in cambio di ministeri, sottosegretariati, nomine d’alto livello in partecipate statali. Compromessi tipici del clima da fine prima Repubblica. Per non parlare del “Padrone di casa”: i processi, i bunga bunga, l’attacco alla magistratura, l’inefficienza eretta a sistema, l’immobilismo. Tutto ciò che per la Lega era nemesi, si è inverato. Più che per la Lega, per gli elettori leghisti. In ogni caso, si è oltrepassato il segno. Va bene tutto, si diceva, anche allearsi col Cavaliere, (che il popolo del Carroccio, notoriamente, non adora), purché passi il federalismo fiscale.
Era il modo gentile e istituzionale con il quale si era tradotto un sentimento popolare in un’idea politica: Basta con “Roma ladrona”. Poi, svariati colonnelli ed esponenti di peso, nella “Roma ladrona” hanno iniziato a sguazzarci. Ci hanno messo prima un piede dentro, aggirandosi tra i corridoi del Palazzo con fare guardingo e sospetto. Pian piano hanno iniziato ad acclimatarsi. Infine, ci han preso gusto. E hanno scoperto che “cadreghe”, privilegi, potere, compromessi, e via dicendo, in fondo, non sono così male. Intanto, il popolo leghista osservava. Assisteva inerme. I propri capobastone, gli stessi con i quali si era soliti dividere vino a salamelle ai raduni del partito, invischiati nelle logiche del potere, mentre il fine ultime, man mano, sbiadiva. “Un comune a te, una provincia a me, io non ti faccio cadere il governo, tu mi dai una Commissione…”.
Va bene tutto, si continuava a dire, prima o poi, tanto, avremo l’autonomia. Il popolo leghista, del resto, ha sempre nutrito una profonda fiducia nei suoi capi. La Lega si fonda su una concezione carismatica della leadership. I concetti politici si mescolano con le tradizioni, le idee con la terra e i sentimenti. La fede leghista, quindi, non si corrompe facilmente. Però, a un certo punto, si corrompe. E, questa volta si è corrotta. Si è andati oltre il limite di sopportazione. I capi del partito lo hanno compreso. La capacità di tastare gli umori dei propri elettori non gli è mai mancata e, dal giorno dopo la vittoria dei 4 Sì, hanno colto il messaggio: “Basta!”. Per la prima volta, infatti, la base e alcuni esponenti di spicco, hanno manifestato una profonda distonia con i vertici. I ministri votavano no o si astenevano, gli elettori (e Zaia) votavano sì. Capito l’antifona, si è ragionato sul da farsi. Lo si era già iniziato a fare dopo che Milano e Napoli erano finiti, ai ballottaggi, nella mani della sinistra estrema e dell’Idv. Allora accadde un fenomeno inedito: Pdl e Lega hanno sempre agito da vasi comunicanti. Se uno perdeva voti, l’altra ne guadagnava e viceversa. Alle amministrative, hanno perso voti entrambi.
Ebbene: con il referendum si è arrivati a un bivio: o si cambia strada, o la Lega rischia di implodere. Pontida rappresenterà il termine temporale discriminante. Da lì dovrà emergere la nuova Lega, purificata degli errori del presente. Come? ci si domanda. Il rinnovamento dovrà coincidere con svolte concrete tangibili. Il popolo leghista dovrà percepire che il timone della nave è stato raddrizzato. (E il timoniere dovrà dimostrare di essere ancora in grado di guidarla, la nave. Per la prima volta nella storia del Carroccio, infatti, è stato messo in discussione il ruolo di Umberto Bossi). La concretezza richiesta, quindi, si tradurrà in degli aut aut al governo. Condizioni sine qua non per non staccargli la spina. Nessuno ha la sfera di cristallo, ma con ogni probabilità saranno due i nodi imprescindibili: la riforma fiscale, e la missione in Libia.
Il nord e, in particolare, il nord est, stretti tuttora dalla morsa della crisi non ne possono più. Il carico fiscale non dà tregua e la riforma promessa da ormai quasi due decenni non arriva. A risentirne, gran parte dell’elettorato padano: piccoli imprenditori, commercianti, agricoltori. Di recente Berlusconi ha promesso che la riforma del sistema tributario si sarebbe compiuta entro l’estate. Ma subito il ministro dell’Economia Giulio Tremonti ha smentito l’ipotesi, sostenendo che non ci sono i margini per una manovra del genere. Il ministro ha invitato alla «prudenza».
Il titolare dell’Interno Roberto Maroni (le parole del quale, probabilmente, rappresentano l’anticipo di quanto avverrà a Pontida) immediatamente ha replicato: «non serve prudenza, ma coraggio». Tremonti, poco dopo, ha replicato a sua volta. Dicendo che la riforma fiscale si farà. Consisterà in un sistema fatto da tre aliquote e cinque imposte. Ma ora non è il momento. La priorità è il mantenimento in ordine dei conti. Per una manovra del genere servono 80 miliardi di euro. Maroni dal canto suo, ha ulteriormente insistito. «Ci vuole coraggio».
– Che la Lega non abbia mai voluto coinvolgersi nei bombardamenti aerei per «proteggere la popolazione libica» da Gheddafi, come sancisce la Risoluzione Onu che legittima i raid, è cosa nota. Tanto più che l’entrata dell’Italia nella colazione si compì all’insaputa della Lega. Berlusconi diede l’assenso in un vertice con Sarkozy. Bossi scoprì che il nostro Paese avrebbe bombardato a cose fatte. Troppi i rischi e i costi, irrisori i benefici, inoltre. A fronte di miliardi spesi per le operazione belliche, riceviamo in cambio orde di immigrati: è questo il pensiero del titolare del Viminale.
Ed è ancora una volta Roberto Maroni a interpretare gli umori leghisti. Ieri, senza mezzi termini, ha detto: «Il governo italiano non deve più spendere soldi per i bombardamenti in Libia»; «Spero ha aggiunto – si ponga fine alla guerra e ai bombardamenti in Libia: solo con un nuovo governo, qualunque esso sia, si può gestire il fenomeno immigrazione altrimenti continueremo ad avere immigrati, immigrati, immigrati».
Il partito è in fibrillazione, lo si è capito. Resta da vedere se a Pontida il malumore della base esploderà, facendo emergere le lotte intestine, o se rientrerà tutto, facendo intendere che, in fondo, si trattava solamente di malumori e nulla più. Ciò che è certo che Flavio Tosi, sindaco di Verona e Luca Zaia, presidente del Veneto, dispongono di un piccolo esercito di “dissidenti” e sono seguiti da una pattuglia di sindaci 40enni che, al referendum ha votato Sì.
Tosi, ricorda Marco Alfieri, si dichiara “Maronita”. Fino a poco fa, a non definirsi un fedelissimo del Senatùr, sarebbe stato tacciato di eresia e scomunicato. E’ presto, tuttavia, per parlare di guerre per la successione, anche perché il momento politico non consente colpi di testa. Ma se domenica la base si rivolerà contro i vertici, questo avrà profonde ripercussioni sull’azione dell’esecutivo. Bossi, Maroni, Calderoli & Co. dovranno estremizzare le proprie richieste al premier (qualunque esse siano) per non alienarsi definitivamente i propri elettori.
– E’ il tradizionale appuntamento leghista annuale. Si svolge a Pontida, in provincia di Bergamo, dove il 7 aprile del 1167 la Lega Lombarda nacque per contrastare il Barbarossa.Si svolge dal ’90 e vi prendono parte i massimi esponenti del partito. Tra tutti gli eventi leghisti che si succedono nel corso dell’anno, è il più importante.
Non vi partecipa alcun esponente degli altri partiti, e si celebrano una serie di riti: viene issata la bandiera della Padania, suonato Va, pensiero di Giuseppe Verdi, inno della Padania e si volge un giuramento di un rappresentante “nazionale” della Lega Nord, che recita: «Oggi, sul sacro suolo di Pontida di fronte alla sua millenaria abbazia e alla sua storia, dopo otto secoli or sono i nostri comuni riunirono in lega e giurarono di combattere contro il potere straniero noi rappresentanti dei popoli padani si giura di difendere la libertà dei nostri popoli padani dal potere romano e ciò si fa giurare anche ai nostri figli».
(di Paolo Nessi)