Il meeting di primavera del Fmi ha certificato che la crisi è entrata in una fase nuova. Le cifre sono ballerine, gli economisti di Washington lo ammettono: le hanno aggiustate prima in peggio poi in meglio, ma nessuno ha capito davvero la dimensione, la portata, le conseguenze del collasso sistemico. A che punto siamo adesso? Il panico, scoppiato tra settembre e ottobre, dopo il fallimento di Lehman brothers, è passato. Gli interventi paralleli (anche se non sempre coordinati) di governi e banche centrali hanno fermato la valanga e hanno girato la chiavetta che fa ripartire il motore dell’economia, cioè la domanda per consumi e investimenti. Ecco perché si intravedono i primi segnali di fumo. L’arrosto verrà, ci dice il Fmi, non si sa quando: forse dobbiamo aspettare la primavera prossima. E’ probabile che l’uscita dalla crisi avvenga in modo asincrono. Cominceranno Cina e India, non gli Usa come sempre è avvenuto negli ultimi cinquant’anni.
Olivier Blanchard l’economista capo del Fondo, parla di due correnti contrapposte: l’una, che viene dal mercato, trascina ancora in basso l’economia; l’altra, che viene dai governi, la spinge in alto. Una bella immagine, ma le cose sono meno nette. Lawrence Summers, consigliere di Obama, sostiene che si sono messe in moto forze endogene: le scorte sono ormai al minimo e il loro ciclo non può mai scendere sotto zero. Quindi, le imprese si stanno rimettendo in moto. Anche nel settore immobiliare, il crollo dei prezzi comincia a provocare un primo rimbalzo della domanda. Dunque, il mercato dà segni di risveglio. Quanto alla mano pubblica, molti degli interventi annunciati avranno effetto solo tra molti mesi (si pensi alle infrastrutture). Secondo l’Ocse, quel che si può chiamare davvero stimolo alla crescita (quindi escluse le spese per ammortizzatori sociali e una tantum) equivale all’1,4% del pil negli Usa, e un po’ meno negli altri paesi occidentali, con l’Italia e la Francia che gravitano attorno allo zero. Insomma, la linea di demarcazione tra stato e mercato è sempre meno netta di come la si rappresenta.
I confini sfumano anche se si analizzano i principali punti di crisi. A cominciare dalle banche. Dai bilanci stanno emergendo situazioni molto diverse: alcune registrano un utile nel primo trimestre, altre sono decisamente in rosso. Nell’insieme, il bubbone dei titoli tossici non è stato ancora estratto e il sistema creditizio resta sospeso nel vuoto. Chi si accollerà quei quattro trilioni di perdite negli Usa, nella Ue e in Giappone, stimati dal Fondo monetario? Pressate dall’esigenza di pulizia e dalla necessità di trovare capitali per sopravvivere, le banche hanno smesso di fare il loro mestiere principale: prestare soldi a imprese e famiglie; preferiscono trattenere la liquidità dei depositanti come salvagente per le tempeste prossime a venire. Se è così, dalla fonte principale della crisi continua a zampillare veleno.
Anche dal lato della produzione il quadro è a tinte oscure. Le imprese che producono beni durevoli registrano ancora cadute allarmanti (a cominciare dall’auto). Si sono salvate l’Information technology e le telecomunicazioni, ma non hanno lo stesso impatto sul pil e sull’occupazione. Lo stop al commercio mondiale per la prima volta nel dopoguerra, blocca l’ingranaggio che ha prodotto la grande crescita degli ultimi quindici anni. Ciò vuol dire che le conseguenze sociali della crisi, perdita di posti di lavoro e di reddito, saranno pesanti. Da questo punto di vista, non abbiamo ancora visto niente.
La terza incognita riguarda l’interventismo statale. Disavanzi e debiti pubblici schizzano verso livelli da economia di guerra. Obama promette al Congresso che tutto tornerà in ordine, una volta superata la crisi. Forse, ma certo non prima che finisca il suo mandato. Molto più difficile sarà per i paesi dove i bilanci pubblici sono meno flessibili, a cominciare dall’Italia il cui debito vola oltre il 120% e comincia a diventare un serio problema sui mercati (i vincoli di Maastricht sono ormai ricordi del passato). In molti, tra i quali l’economista Martin Feldstein, evocano già lo spettro di una crisi da inflazione provocata dalla bolla monetaria. Bernanke minimizza il rischio, spiega che quando sarà tornata la crescita saliranno i tassi di interesse e si dice fiducioso di avere tutti gli strumenti per impedire una fiammata dei prezzi. La Fed si dà come obiettivo una inflazione del 2%, esattamente come la Bce. Tuttavia, l’esperienza di questi due anni terribili ci dimostra che è impossibile controllare la miriade di fattori, molti dei quali psicologici, che creano instabilità. Quando il pentolone bolle, non c’è valvola efficace abbastanza per abbassare la pressione. Forse il peggio è passato, ma il prezzo non l’abbiamo ancora pagato per intero.