Occorre dare merito al Governo Monti di avere realizzato, in materia di liberalizzazioni, quanto gli esecutivi precedenti degli ultimi vent’anni non sono riusciti non dico a mettere in atto, ma neanche in cantiere. Chi ha letto con attenzione il Trattato di Maastricht sa che un forte e deciso programma di liberalizzazioni si sarebbe dovuto attuare subito dopo la firma del documento. Qualcosa tentò, nel mezzo della crisi finanziaria del 1992, il Governo Amato, ma da allora non se ne è fatto più nulla (pur parlandone e stra-parlandone a iosa).
Occorre ammettere che, una volta deciso di comportarsi da Governo “politico” (e quindi iniziando i riti “concertativi”) su alcuni campi essenziali (concessioni autostradali, ferrovie, banche, benzina, scorporo Snam), l’esecutivo ha fatto marcia indietro o rinviato “a tempi migliori”. In altri (taxi, servizi pubblici locali) è sceso a compromessi che un Governo “tecnico” avrebbe potuto, e dovuto, evitare. L’Istituto Bruno Leoni sta diramando note dettagliate che possono, utilmente, indurre a discutere sulla portata di un provvedimento che con tutti i suoi limiti fa uscire l’Italia da quell’economia “corporativa”, fonte di progresso nelle Repubbliche Comunali e nelle Signorie del Medioevo e del Rinascimento, non da decenni più al passo con i tempi e, quindi, freno alla crescita.
Tuttavia, il Professore Mario Monti è un economista e ha altri validi economisti nella sua squadra. Non si adombri quindi se un economista molto semplice ha due-tre cosette da chiedergli sui benefici del programma appena varato. Sono stati quantizzati in un’accelerazione della crescita del Pil di un punto percentuale l’anno per un totale di undici punti su undici anni e nel conseguente incremento (sempre nell’arco di undici anni) di otto milioni di occupati.
Nell’interesse della trasparenza sarebbe utile sapere come si è arrivati a queste stime. Consultando il Social science research network (Ssrn), la maggiore biblioteca telematica in materia economica, se si chiede “effetti e impatti di liberalizzazioni” si ottengono 349 papers scientifici, in gran misura monografici (relativi a un settore in un Paese specifico), ma non si trova nessun testo che fornisca un metodo per quantizzare effetti e impatti di un programma quale quello appena varato. Il lavoro più recente è stato prodotto dall’Università di Praga (CERGE-EI Working Paper No. 452): una lettura attenta mostra che si tratta di uno studio empirico ex-post sull’aumento di produttività conseguente la liberalizzazione della telematica nella Repubblica Ceca, tema che poco ha a che fare con il programma appena varato in Italia. Ci sono numerosi studi-Paese (in gran misura o di paesi in via di sviluppo o di paesi in transizione dalla pianificazione al mercato) non certo attinenti all’Italia e privi di stime econometriche quantitative.
Lo studio forse più pertinente è la monografia di Anke Halle “The Paradox of Liberalization – Understanding Dualism and the Recovery of the German Political Economy”, in quanto tratta delle politiche di liberalizzazione in Germania per “adattarsi” a globalizzazione e a moneta unica. È un lavoro affascinante ma di political economy, non di analisi quantitativa: mostra come una coalizione di grandi imprese e di leader sindacali abbia guidato il processo (anche la liberalizzazione del mercato del lavoro) appena resosi conto che Europa e Usa non avevano più il monopolio del progresso tecnologico – un processo iniziato con governi socialdemocratici e continuato con grandi e piccole coalizioni.
Si giustappone a un’analisi appena pubblicata sul Vol. 49, n. 5, pp. 923-947 del Journal of Common Market Studies: sulla base di interviste con 200 alti funzionari della Commissione europea conferma che il loro DNA è più statalista che liberalizzatore. Quindi, da un lato, viene da chiedersi se ci sia e dove in Italia una coalizione analoga a quella che ha reso possibili le liberalizzazioni in Germania, e, da un altro, la conclusione di non dare troppo ascolto a Bruxelles.
Ciò, però, non risponde alla domanda di fondo: come sono stati stimati gli aumenti di Pil e di occupazione delle liberalizzazioni di Monti? Gran parte dei modelli macro-econometrici dinamici sono aggregati e riguardano un lasso di tempo di 24-36 mesi, poiché è in pratica poco corretto stimare identità ed equazioni di comportamento per un lasso di tempo più lungo. Il Prof. Monti boccerebbe studenti che all’esame di econometria proponessero di estrapolare a dieci-undici anni stime di due-tre anni. Non si conoscono ancora, poi, modelli macroeconomici dinamici che consentano di parametrizzare liberalizzazioni e i loro effetti e impatti sul tipo di quanto previsto nel decreto legge. Lo si può fare costruendo scenari contro-fattuali dell’economia italiana oggi, domani e dopodomani con esercizi di statistica comparata basati su matrici di contabilità sociale e utilizzando modelli computabili di equilibrio economico generale.
Ma all’Istat, richiesti, affermano che il lavoro sull’aggiornamento della matrice di contabilità sociale dell’Italia (ferma al 1994) sta appena iniziando. Ove per alcuni comparti – nel 2003-2004 lo si fece per editoria ed economia dell’informazione e comunicazione – fossero stati fatti aggiornamenti, sarebbe non utile ma doveroso pubblicarli, specificare quale modellistica di equilibrio economico è stata utilizzata e, al fine di tener conto dell’incertezza (inevitabile in un lasso di undici anni), quale metodo è stato impiegato – quello di Black e Scholes, quello di Dixit e Pindyk, quello di Graham, il calcolo binomiale, e via discorrendo.
Sono domande tecniche, ma di un economista semplice che non vuole e non può credere che un Governo tecnico abbia dato numeri a vanvera o si sia affidato ai soliti barracuda-esperti che pullulano nei corridoi del potere. Si confida che arriveranno risposte dettagliate e circostanziate.