La crisi ucraina ha perso appeal sui grandi mezzi di informazione: certo, se ne parla, ma non con l’attenzione che meriterebbe, soprattutto per quanto riguarda alcuni suoi effetti collaterali che ci riguardano direttamente. E a dirlo non sono io, è stato Mario Draghi nella conferenza stampa di giovedì, quando un po’ in sordina ha fatto notare che, stando a calcoli proprio della Bce, la fuga di capitali dalla Russia da quando è cominciata la crisi ucraina sarebbe quattro volte più ampia di quanto ammesso finora dal Cremlino, chiaro segnale che le sanzioni fin qui inflitte stanno già ora creando un serio danno all’economia del Paese.
E c’è di più, sempre confermato dalle parole di Draghi: l’outflow finora verificatosi è stato abbastanza ampio nelle ultime settimane da spingere al rialzo le quotazioni dell’euro sul mercato dei cambi, fatto che ha complicato e non di poco la politica monetaria della Bce. Senza specificare la fonte dell’informazione, Draghi ha infatti detto che «si sono verificati finora significativi outflows di capitali, stimabili nell’ordine di 160 miliardi di euro che sono usciti dalla Russia per tornare nei paesi di origine». Tradotta in dollari, la cifra diventa 222 miliardi, il volume di capitali più alto che un funzionario di livello internazionale finora avesse citato potendo contare su dati riservati ma assolutamente credibili: basti pensare che il ministero delle Finanze russo parlava di 51 miliardi di outflow nel primo trimestre di quest’anno.
Non importa e non deve importarci quanto quel dato fosse stato aggiustato al ribasso per evitare panico sui mercati, potrebbe anche essere stato vero e aver subito una netta accelerazione nel mese di aprile con l’accentuarsi delle tensioni e la probabilità di una guerra civile su larga scala: il fatto è un altro, quella crisi – al di là delle implicazioni politiche e geopolitiche – sta ponendo serie pressioni sull’euro, una valuta di per sé già troppo apprezzata e spinta al rialzo dalla guerra valutaria posta in essere da Usa, Cina e Giappone.
Per Tim Ash di Standard Bank, il dato è davvero allarmante: «Se il dato di Draghi, che è veramente grande, si rivelasse vero, questo dimostrerebbe chiaramente come la Russia sia già oggi in guai molti più seri di quanto la gente creda. Per usare un termine di paragone, siamo già allo stesso livello di fuga di capitali che si registrò a fine 2008 dopo il crollo di Lehman Brothers». C’è però da dire che qualcosa non torna nel discorso di Draghi e nelle cifre che ha fornito: primo, il dato delle riserve russe che non combacia con la fuga di capitali, visto che agli outflows solitamente segue un intervento della banca centrale per tamponare; secondo, consequenziale, il cambio del rublo, che a fronte di una situazione simile sarebbe dovuto letteralmente crollare e non lo ha fatto, pur avendo già perso il 9% da inizio anno.
Di converso, però, una voce che accrediterebbe indirettamente le cifre di Draghi arriva proprio dalla Russia. Per la principale banca del Paese, Sberbank, infatti, i contratti swap in essere hanno finora mascherato la vera entità dell’intervento monetario della banca centrale russa, in modo così significativo da non rendere pubblicamente visibile un calo delle riserve che potrebbe arrivare – stando a calcoli dell’ufficio studi della banca – a 477 miliardi di dollari. Insomma, da un punto di vista di sistema, la banca centrale potrebbe aver immesso sul mercato rubli, i quali sarebbero poi stati utilizzati per comprare monete di riferimento come euro e dollaro, ma per quanto sia possibile mascherare le fughe di capitali attraverso complesse operazioni sui derivati, questa strategia non può durare a lungo prima che il trucco venga scoperto e i pescecani sentano l’odore del sangue.
Per Chris Weafer della Macro Advisory di Mosca, il danno finanziario già patito dalla Russia sarebbe tale da aver ricondotto Putin a più miti consigli, facendolo propendere per un allentamento della pressione sull’Ucraina. Di qui, la decisione di mantenere un atteggiamento aperturista rispetto al ritiro delle truppe russe ammassate sui confini, anche se la Nato finora ha negato qualsiasi movimento di ritirata. Weafer però non ha dubbi: «Putin ha già largamente ottenuto il suo obiettivo di forzare una federalizzazione dell’Ucraina dell’Est. A questo punto non può e non vuole distruggere l’economia interna ulteriormente, quindi ha cambiato registro a livello diplomatico».
E, in effetti, da qualche tempo il leader russo è sparito dalle scene pubbliche, lasciando al ministro degli Esteri, Serghei Lavrov, il compito di mediare – e minacciare – con Ucraina, Usa e Ue. E sempre Weafer, nei fatti, conferma il dato allarmante avanzato da Draghi rispetto all’entità della fuga di capitali: «Le aziende europee che operano in Russia, stando a mie informazioni confidenziali, stanno drasticamente riducendo il rischio e trasferendo capitali per evitare un domani di incappare nelle sanzioni finanziarie. Le stesse grandi aziende russe hanno aperto conti correnti presso banche estere per essere certe di avere liquidità disponibile e garantita in caso nuove sanzioni vadano a colpire le banche russe e la loro operatività».
Che farà ora Putin? Cederà in nome dell’economia interna o giocherà il tutto per tutto? Come vedete la geofinanza esiste, se anche una guerra apparentemente lontana va a impattare – e pesantemente – sulla quotazione della moneta che abbiamo nel portafoglio e con la quale le nostre aziende si trovano costrette a dover operare su mercati sempre più manipolati dalle banche centrali. E attenzione, perché se un uomo come Mario Draghi ha sentito il bisogno e la necessità di rendere noto pubblicamente quel dato e la preoccupazione che esso suscita in lui, vuol dire che i rischi stanno davvero diventando seri.