All’esito dell’Ipo della Popolare di Vicenza non è facile credere alla sceneggiatura “Atlante contro Mediobanca”. Il fondo salvabanche promosso da Tesoro, Bankitalia e Acri avrebbe fatto volentieri a meno di investire subito un terzo dei suoi 4,2 miliardi racimolati fra banche, assicurazioni e fondazioni per salvare al 92% la Popolare dal bail-in. E Piazzetta Cuccia sarà prevedibilmente felice di non esercitare la garanzia obbligatoria sul 5% se — come è tutt’altro che improbabile — Borsa italiana e Consob non ammetteranno la nuova BPVi alla quotazione al listino per flottante troppo scarso.
Eppure un po’ di “Atlante vs Mediobanca” a Vicenza inevitabilmente si respira: non fosse altro perché un pizzico di ruggine l’operazione Atlante l’ha seminata. Mediobanca non è entrata nel fondo affidato a Quaestio (la Sgr controllata dalla Fondazione Cariplo) e fortemente sponsorizzato da Intesa Sanpaolo. Un gruppo — quello guidato dell’amministratore delegato Carlo Messina — che negli ultimi tempi è parso emergere sempre più come “Banca della Nazione” del governo Renzi (non secondario il ruolo dell’Ente CariFirenze, snodo del “cerchio magico” del premier).
L’agenzia di ristrutturazione della “nazione finanziaria” è però storicamente stata basata in Via Filodrammatici. L’istituto, non a caso, era in squadra anche a Vicenza, nel tentativo originario a guida UniCredit, poi naufragato. Né è un mistero che da almeno un paio d’anni Mediobanca era al lavoro su vari veicoli per lo smaltimento degli Npl (sofferenze creditizie). Ora invece ha fatto irruzione un veicolo “nazionale” di fatto guidato da Intesa e dalle sue Fondazioni: con la benedizione di Palazzo Chigi.
A Vicenza, alla fine, tutto è diventato plastico: a cominciare dai limiti dimensionali e strategici di Atlante (salutato da Ue, Bce e Fmi per la sua vocazione di trita-Npl, non di padrone di banche) e dai rischi di rimanere “impiombato” sul mercato in un investimento non facilmente liquidabile. Mediobanca — col suo 5% forse un po’ involontario — mostra d’altronde con altrettanta plasticità come a Vicenza e altrove una cooperazione davvero “di sistema” sarebbe probabilmente più efficace di un’ennesima “confrontation” domestica. Una guerra che può non essere sgradita al premier, ma che appare fuori dal tempo, “dell’altro secolo”: una guerra che né i candidati combattenti, né il potenziale campo di battaglia — l’Azienda-Paese — sembrano in grado di reggere.
Eppure tamburi di guerra risuonano anche sul più classico degli scacchieri “d’antan”: il controllo del Corriere della Sera. Giusto ieri mattina, proprio sul Corriere Ferruccio de Bortoli — direttore “past” più che “ex” — ha firmato un lungo editoriale di saluto a Giovanni Bazoli — da pochi giorni “past president” di Intesa dopo 34 anni — e di sostegno all’operazione Atlante. Una presa di posizione pesante nei giorni in cui Cairo Communication sta ultimando l’istruttoria della sua Ops su Rcs, apertamente sorretta da Intesa Sanpaolo.
Ancora ieri, d’altronde, su Repubblica — in via di fusione con La Stampa — era possibile leggere l’indiscrezione insistita su una contromossa pilotata da Mediobanca: contanti (dei gruppi Pesenti e Bonomi?) contro la “carta” con cui il patron del Torino vorrebbe comprarsi il Corriere. Un’altra guerra virtuale, combattuta sui debiti e sulla crisi della grande editoria, una delle tante dell’Italia del XXI secolo?
Intanto a Roma Alfio Marchini diventa il candidato forte del centrodestra — ma forse soprattutto del “partito degli affari” capitolino — quasi vent’anni dopo aver ospitato forse il più celebre compromesso fra finanza e politica nel dopoguerra italiano: quello fra il presidente onorario di Mediobanca, Enrico Cuccia, e il primo premier comunista, Massimo D’Alema. Lo scambio allora fu: protezione di Mediobanca dalle Opa UniCredit-Comit e SanpaoloImi-Bancaroma contro appoggio dell’istituto all’Opa della “razza padana” su Telecom. Nell’immediato andò come volevano Palazzo Chigi e la sua “banca della nazione” dell’epoca. Nel lungo periodo Il sistema-Paese ci ha solo perduto, e molto, troppo.