Mi permetterete, con l’inizio di un nuovo mese, un piccolo bilancio. Da almeno un anno e mezzo mi sento dire, ogni piè sospinto, che sono un catastrofista a senso unico, un pessimista a oltranza, quasi un feticista delle crisi che gode fisicamente ogni volta che l’indice Standard&Poor’s 500 si avvicina pericolosamente a quota 1000, di scovare con il lanternino pareri di eminenti “gufi” come me per sostanziare le mie tesi.
Bene, guardatevi attorno cari lettori: dove sarebbe la ripresa tanto decantata? Dove intravedete elementi di ottimismo? Dalle Borse e dai loro rallies garantiti dai dollari stampati in cantina dalla Fed, prestatore di ultima istanza di qualsiasi entità in bancarotta? Nel mercato del lavoro? Nei dati di crescita? Nei debiti pubblici attorno al mondo? Nella guerra valutaria che spinge i governi globali a svalutare per riuscire a esportare uno spillo più del concorrente? Sono questi i segnali di ottimismo? Se sì, godeteveli pure.
Altro mantra dei miei critici è il fatto che le istituzioni siano obbligate a fare il loro lavoro, ovvero magari sottostimare un po’ i rischi reali perché devono ottemperare al compito fondamentale di tranquillizzare i mercati. Come i bambini piccoli, hanno bisogno della bugia a fin di bene perché hanno paura di guardare in faccia la realtà. Beh, questa volta non citerò analisti a me familiari od “oscuri” report di banche d’affari o centri studi. No, questa volta a certificare il mio pessimismo e l’evolversi negativo della crisi ci pensa il pompiere per antonomasia, ovvero il Fondo Monetario Internazionale. Il quale, nel suo ultimo report ufficiale, dal titolo “Will it hurt? Macroeconomic effects of fiscal consolidation”, al netto del politically correct, argomenta implicitamente che le misure di austerity faranno più danno di quanto finora ammesso.
Normalmente, una contrazione del Pil dell’1% porta con sé un perdita dello 0,5% della crescita dopo due anni: peccato che non funzioni così quando è il mondo intero a essere nei guai, la contrazione consolidata e profonda e soprattutto quando i tassi di interesse sono già a zero e tutti tagliano la spesa contemporaneamente. Nel qual caso, la perdita a livello di crescita è almeno doppia. A dare ragione al Fmi ci ha pensato nientemeno che il premio Nobel per l’economia Joe Stiglitz, secondo cui «non tutte le nazioni posso svalutare le proprie monete e incrementare l’export netto al tempo stesso. In questo quadro, alcune parti dell’Europa potrebbe precipitare in una spirale mortale».
Per il Fondo, i danni legati alle politiche coordinate di austerity estrema potrebbero essere doppie per paesi che non possono né svalutare, né tagliare i tassi, come Spagna, Irlanda, Portogallo, Grecia e Italia, tutte intrappolate nella gabbia di tassi di cambio sopravvalutati dell’unione monetaria: «Una caduta del valore della moneta gioca un ruolo chiave nell’attenuazione dell’impatto. Il risultato ricalca lo standard della teoria Mundell-Fleming in base alla quale i moltiplicatori fiscali sono più ampi in economie come regimi di cambi fissi».
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Lasciamo, per favore, da parte i rimandi alle esperienze di austerity canadese e scandinava negli anni Novanta – esempio che piace molto scomodare ai soloni della Bce – come strada maestra della ripresa attraverso i tagli di budget. Queste nazioni, infatti, furono in grado di esportare a livello record semplicemente perché avevano come cliente un mondo in pieno boom: potevano abbassare i tassi di interesse ed erano sufficientemente piccole come entità per porre in essere svalutazioni “beggar-thy-neighbour” senza dare troppo nell’occhio: capirete da soli, che il contesto in cui ci stiamo barcamenando sia un po’ differente.
Siamo seri, l’Europa meridionale non vedrà ripresa per molto tempo. Prendiamo il Portogallo, dove il premier Jose Socrates ha presentato il suo piano di austerity: ha capitolato sul taglio dei salari, ma ha annunciato l’aumento dell’Iva dal 21% al 23% e il congelamento di pensioni e progetti di spesa. Detto fatto, i sindacati hanno proclamato uno sciopero generale. Per Citigroup, lo squeeze fiscale il prossimo anno peserà il 3% sul Pil: stando allo schema dell’Fmi, questo implicherebbe una perdita del 3% di crescita. Ovvero, contrazione.
La Spagna ha appena vissuto il suo primo sciopero generale e nonostante questo, il ministro delle Finanze, Elena Salgado, ha ribadito che il governo andrà avanti per la sua strada: la finanziaria del 2011 sarà durissima, con tagli del 16% per la spesa dei ministeri. Secondo la Salgado, non esiste rischio di recessione double-dip in Spagna: non la pensa così la Banca centrale spagnola, che prevede una contrazione dell’economia nel terzo trimestre. Con un tasso di disoccupazione già oltre il 20%, le strade sono due: o la Salgado ha ragione o la società spagnola si prepari a vivere un vero e proprio stess test, con le conseguenze che questo porterà con sé.
Irlanda, Grecia e Portogallo sono lì a dimostrarci che le politiche di tagli stanno fallendo nella loro missione di ridurre il deficit velocemente: l’austerity stessa, poi, sta erodendo le entrate fiscali. Francia e Italia, il prossimo anno, hanno previsto tagli pari all’1,6% del Pil, quindi non possono permettersi altri aiuti ai partner nei guai. Visti i rischi, uno si aspetterebbe che la Bce si ponesse in stand by rispetto a politiche di stimolo monetario ma, mentre Usa, Regno Unito e Giappone si dibattono rispetto ai rischi di una nuova ondata monetaria, Francoforte già pensa all’exit strategy, correndo il pericoloso rischio già affrontato nel luglio 2008 quando alzò i tassi nel momento peggiore della crisi.
La Bce sta smobilitando le sue politiche di prestito facilitato verso le banche dell’eurozona, senza porsi il problema del rischio per gli istituti di Spagna, Portogallo, Irlanda e Grecia che hanno preso a prestito qualcosa come 362 miliardi di euro o per i governi di quei paesi. Quelle banche hanno infatti usato quei soldi per comprare obbligazioni statali, giocando al carry trade interno per ottenere extra-rendimenti. In altre parole, la Bce sta segando alla base il pilone che regge il sud Europa.
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Insomma, la Bce sta lavandosi le mani dei cosiddetti Pigs, lasciando che il problema diventi materia per le autorità fiscali attraverso il piano di salvataggio da 440 miliardi di euro. Ecco sostanziato il nuovo piano di stabilità, strumento legislativo che di fatto pone in un’ottica di sacralità questa scelta di eliminazione del problema: la Germania ce l’aveva giurata, ha messo le mani in tasca per la Grecia solo per salvare le sue banche e pagando un pesante conto politico interno. Ora, è il momento della vendetta. Il problema è che il contesto generale pone seri rischi per la stabilità interna di quei paesi.
L’International Labour Organisation (ILO) nel suo ultimo report ha infatti sottolineato i rischi di crescente scontento sociale visto che, stando ai suoi calcoli, la situazione della disoccupazione globale non vedrà ripresa fino al 2015, due anni dopo la sua precedente previsione: servono 22 milioni di nuovi posti di lavoro, 14 nei paesi ricchi e 8 in quelli in via di sviluppo. Nel documento si parla di “recessione a lungo termine del mercato del lavoro” e si elencano almeno 25 paesi in cui il disagio sociale è già sfociato, se non in atti violenti, in manifestazioni e scioperi.
Per il direttore generale dell’ILO, Juan Somavia, «l’equità deve essere il compasso che ci deve guidare fuori dalla crisi. I cittadini possono capire e accettare scelte difficili solo se le percepiscono come condivise da tutti. I governi non dovrebbero scegliere tra le richieste dei mercati finanziari e i bisogni dei loro cittadini, stabilità sociale e finanziaria devono stare insieme. Altrimenti, non sarà a rischio solo l’economia globale, ma anche la coesione sociale». Per Raymond Torres, autore del report dell’ILO, i governi non dovrebbero ritirare le misure di stimolo fiscale fino a quando la ripresa economica resta così debole ma, soprattutto, dovrebbero interrogarsi rapidamente sul fatto che «i fattori fondamentali che sono le cause della crisi non sono stati affrontati in maniera adeguata». Se infatti per l’ILO si sono registrati segnali incoraggianti di ripresa occupazione, soprattutto nelle economie emergenti di Asia e America Latina, «ora nuove nuvole stanno emergendo all’orizzonte occupazionale e le prospettive sono peggiorate di parecchio in molte nazioni».
Dall’inizio della crisi, nel 2007, nel mondo sono andati in fumo 35 milioni di posti di lavoro: l’ILO prevede che la disoccupazione globale quest’anno toccherà quota 213 milioni, un tasso del 6,5%. Solo negli Usa, occorrerebbero 6,9 milioni di posti di lavoro per tornare al livelli pre-crisi. Non solo molte nazioni che avevano registrato una ripresa occupazionale alle fina del 2009 stanno ora vedendo questo dato indebolirsi, ma è lo stesso tasso di soddisfazione sul lavoro a essere deteriorato pesantemente.
Per l’ILO, «più lunga sarà la recessione nel mercato del lavoro, più grandi saranno le difficoltà per i disoccupati per trovare un nuovo lavoro. Nelle 35 nazioni in cui esistono dati credibili al riguardo, circa il 40% di chi cerca lavoro è in una condizione di disoccupazione da più di un anno e corre quindi correlati e pericolosi rischi di demoralizzazione, perdita dell’autostima e anche problemi di salute mentale. Inoltre, i giovani sono sproporzionatamente colpiti dalla disoccupazione».
Che fare, quindi? Tre le ricette dell’ILO per i governi: 1) Politiche attive per il mercato del lavoro che includano anche il work-sharing per venire incontro ai gruppi più vulnerabili come i giovani e anche l’apprendistato. 2) Un link più netto tra salari e guadagni di produttività nelle nazioni in surplus al fine di far crescere la domanda e facilitare l’occupazione. 3) Riforma del settore finanziario per assicurarsi che i risparmi siano incanalati in investimenti produttivi e nella creazione di posti di lavoro stabili.
Sembra la scoperta dell’acqua calda, ma per la maggior parte di governanti e regolatori appare un’inaccettabile eresia: se non si riparte dal lavoro e dalla sua dignità, di condizioni così come di retribuzioni, non si va da nessuna parte. Non è Wall Street a dirci se la ripresa è partita ma “main street”: e qui, l’unica voce in continuo rialzo è la disperazione della gente comune. Senza lavoro, senza salario, spesso senza più un tetto, senza dignità, senza sogni né speranze: al diavolo la Borsa e la finanza globale, in questo momento pensiamo all’uomo. O si riparte da lì o non si riparte proprio.
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P.S. Ieri è stato pubblicato negli Usa uno studio dell’American Sociological Review dell’università di Princeton che certifica come la politica di mutui predatori a livello razziale posta in essere nell’epoca delle mortgage-backed securities allegre, abbia alimentato con le sue ripossessioni forzate su mutui insolventi la crisi globale del real estate e dei subprime. Insomma, le banche e le finanziarie cercavano scientemente mutuatari tra afro-americani, cinesi, messicani e altre minoranze deboli ingannandoli con contratti facili che poi imponevano tassi e costi altissimi, scelta fatta per ottenere foreclosures che aprissero la strada al cosiddetto mercato immobiliare secondario.
Avete capito? Invece di preoccuparsi di valutare rischi e possibilità, invece di venire incontro alla gente in maniera ragionevole, queste istituzioni annoveravano al loro interno intere equipe di dipendenti che si occupavano unicamente di “client profile” e “downpayment ratios”, insomma chirurghi delle classi sociali più disgraziate da utilizzare come strumento di profitto rapido e facile nel mercato immobiliare del boom senza fine: non a caso tra il 1993 e il 2000, questo tipo di mutui verso minoranze etniche potenzialmente insolventi è salito dal 2% al 18% del totale. Capite quindi che questa crisi, che parte da una follia nata tanti anni prima, è figlia prima di tutto della mancanza di valori e fiducia, non dei derivati in sé. Quando l’uomo arriva a questi punti, tutto è possibile. Anche ritrovarsi la Cina a chiedere un euro stabile e pronta a farsi carico di detenere il debito greco e di altri paesi in crisi nell’Ue, tutto in chiave di alleanze nel braccio di ferro contro gli Usa. Prepariamoci, così facendo, a diventare una provincia di Pechino.