Evviva! Il Tribunale di Trani (perché poi proprio quello di Trani? Sorvoliamo, stranezze procedurali del diritto italiano) ha stabilito che i cinque manager di Standard and Poor’s (in sigla, S&P) inquisiti per manipolazione del mercato sono innocenti. Non hanno commesso il fatto. Per ogni garantista, ogni assoluzione è una gioia, anche se ci saranno – per stabilizzare definitivamente la verità processuale di quelle vicende – altri due gradi di giudizio. Già: ma quali vicende? Siamo nel convulso 2011 della Repubblica italiana e i titoli di Stato sono sull’ottovolante, al mercato dei “futures”. Il famoso “spread” tra i nostri Btp e il loro equivalente tedesco, i Bund, è alle stelle, oltre i 500 punti base: significa che la Repubblica italiana, per vendere il suo debito pubblico, deve offrire un interesse superiore a quello che basta offrire alla Repubblica tedesca di ben 5 punti percentuali. Un differenziale (spread, appunto) insostenibile sul lungo periodo. Cos’ha condotto a un simile sproposito?
Tanti fattori, di difficile decifrazione, anche politici, anche d’interesse: riuscirà, forse, la Storia a chiarire. Di sicuro, nella bagarre di quelle settimane convulse e drammatiche, ci si mette a un tratto anche la trimurti delle agenzie di rating, che con tempistiche e modalità diverse, ma convergenti, declassano il loro voto sull’affidabilità della “carta” emessa dal nostro Tesoro, buttando benzina sul fuoco. L’accusa di qualcuno è che l’avessero fatto “apposta”, cioè non rilevando con neutrale oggettività i fenomeni sostanziali e spontanei del mercato e dell’economia nazionale, ma calcando la mano per determinare – o almeno co-determinare – quei fenomeni, cavalcandoli poi in Borsa (o dando modo ai loro amici di cavalcarli) per guadagnare in modo illecito. Nossignore, hanno detto i giudici di Trani: non è andata così, non c’è stata alcuna manipolazione, gli uomini del rating hanno espresso la loro valutazione libera e imparziale. Meglio così.
Ma anche no: nel senso che la distanza oggettivamente siderale dai rating che vengono espressi dalle agenzie e i fenomeni economici reali ai quali si riferiscono è tale da aver ormai vanificato, nella reputazione presso i più, il ruolo stesso del rating. Sono anni, e precisamente dalla crisi dei mutui subprime (2007) al fallimento della Lehamn Brothers (2008) in poi che i “signori del rating” non godono più di alcuna stima. Sono considerati, tutt’al più, un male inevitabile ma superficiale quando stangano e un ornamento gradito ma poco significativo quando elogiano. Il rating è – e resta, con buona pace di Trani – uno strumento di valutazione obsoleto, al quale guarda per convenzionale adesione un calante gruppetto di speculatori internazionali dei quali bisogna diffidare perchè sono ancora potenti, ma quel minimo di dibattito serio su “come stanno” davvero i mercati finanziari ne prescinde. Com’è stato possibile che quel giudizio solenne, fino a dieci anni fa variamente temuto e ambito, sia diventato poco più che un pennacchio?
Per capirlo, riepiloghiamo cos’è il rating e come viene “fabbricato”. Il rating è un voto, un giudizio sulla situazione e sulle prospettive economiche di un Paese o di una società. Qualunque analista finanziario può emettere questo giudizio, e infatti in quasi tutte le banche del mondo se ne fanno di propri in casa propria, ma ci sono – prevalentemente in America – circa cinquemila analisti finanziari che attraverso i loro rating influenzano pesantemente i destini dell’economia – e quindi anche della politica – di tutti i Paesi del globo. Sono appunto gli analisti di Moody’s e Standard and Poor’s, e in parte quelli di Fitch, le “tre sorelle” del rating. Quando stabiliscono che un emittente merita meno fiducia, il costo degli interessi che questo soggetto deve pagare agli investitori per convincerli a comprare i propri titoli s’impenna. Basti pensare che le due agenzie maggiori ogni anno giudicano titoli per 30 mila miliardi di dollari, 20 volte il Pil italiano. E che ogni grado di rating vale lo 0,42% di costo del denaro in meno.
La speculazione professionale internazionale prende spunto dai rating per scatenare campagne di compravendite e guadagnare cifre favolose in poco tempo. È quel che è accaduto più volte nel corso del turbolento 2011, quando le “big three” del rating hanno abbassato il loro voto su Portogallo, Grecia, Irlanda, le relative banche, e poi la stessa Italia e gli Stati Uniti. Moody’s, Standard and Poor’s e Fitch si sono così attirate critiche unanimi. Si dice che con i loro rating non facciano che ratificare, e solo a posteriori, situazioni già note, finendo con l’enfatizzarle, a sempre a vantaggio della speculazione; che agiscano in conflitto d’interessi, per favorire i guadagni dei loro azionisti, che sono grandi fondi d’investimento; si dice che abbiano sempre sbagliato nel dare il rating a soggetti poi clamorosamente falliti, dalla Enron alla Lehman Brothers, dalla Parmalat alla società truffaldini di Bernard Madoff (che ancora il giorno prima del crac avevano la tripla A!). L’agenzia di rating cinese Dagong le ha bollate d’inaffidabilità. L’ex presidente della Banca centrale europea Jean-Claude Trichet le stroncò: “È necessaria una riflessione sul ruolo e sulle regole delle agenzie a livello globale. Non è auspicabile perpetuare una struttura così ristretta e in oligopolio”. Più sanguigna la ex commissaria europea alla Giustizia Viviane Reding: “Non possiamo farci mettere al tappeto da un cartello di tre imprese private americane. O il G20 rompe il cartello, o si creano agenzie indipendenti asiatiche ed europee”. E anche dal mondo privato si sono levate durissime critiche, come quella del “guru” della finanza americana Bill Gross, fondatore del più importante gruppo di gestioni del reddito fisso, la Pimco: “Le tre big hanno giocato un ruolo insensato nel perpetrare la follia dei subprime”, “I loro avvertimenti sono stati più che tardivi su Enron e Worldcom e la loro vecchia fede cieca negli emittenti sovrani ha condotto agli eccessi della Grecia. Aziende come la mia, con un proprio grande team di analisti, possono sorpassare, anticipare, battere tutte e tre le agenzie”.
Nel suo piccolo, un gruppo privato italiano molto esposto sul mercato Usa ha superato senza fare una piega il declassamento del suo debito da parte di Moody’s, e il capo dell’azienda Sergio Marchionne sentenziò: “Trovo osceno che Moody’s dia un rating da junk-bond a un’azienda come la Fiat che non ha debiti”.
Ma allora perché la trimurti del rating continua a lavorare? È semplice. A farle sopravvivere sono i voti buoni che danno, e che danno con più generosità di prima. Perché chi li riceve non ha la freddezza di infischiarsene e non vantarsene. Ci vorrebbero uno, dieci, cento Bob Dylan della finanza che facessero con Moody’s, Standard and Poor’s e Fitch quel che ha fatto la pop-star col premio Nobel. Se ne fregassero, dei bei voti, e non andassero nemmeno a ritirare il diploma. Ma si sa che il primo peccato dell’uomo è stata la vanità: e difatti perfino Dylan, alla fin fine, sia pure in forma privata, a Stoccolma a ritirare il suo Nobel ha deciso di pellegrinare…