Ultimamente molti hanno accusato la Banca d’Italia (BdI) per la sua particolarmente “conservativa” Vigilanza sulle banche (ad esempio, queste pagine hanno ospitato l’articolo di Mauro Bottarelli “Perché il Financial Times mette in croce le banche italiane?”). La critica ruota essenzialmente sull’adozione di una definizione di “credito in default” più ampia di quanto viga in altri paesi, il che fa apparire il grado di copertura (la parte dei crediti “cattivi” coperta da accantonamenti) più basso che altrove e implica quindi maggiori – eccessivi – accantonamenti a copertura del rischio di credito; questa impostazione (in assenza di aumenti di capitale) si traduce in una ulteriore contrazione del credito concesso. Un’estrema rigidità e intransigenza rispetto al resto d’Europa che rende BdI sorda alle esigenze sia delle banche che dell’economia in generale, impone un andamento pro-ciclico del credito, e aggrava il credit crunch.
Io offro una lettura un poco diversa. Voglio richiamare i risultati dell’ultimo giro di ispezioni di BdI, da cui sono appunto seguite importanti richieste di maggiori accantonamenti. Mi rifaccio quindi al relativo documento “La recente analisi dei prestiti deteriorati condotta dalla Banca d’Italia: principali caratteristiche e risultati”, e agli ivi richiamati “Rapporto sulla stabilità finanziaria, numero 5 Aprile 2013” sempre di BdI e “Nonperforming Loans in Western Europe – A Selective Comparison of Countries and National Definitions” (2013) di Stephan Barisitz.
Anzitutto, la definizione di “default”, cioè di credito in condizioni di difficoltà di vario grado, è più ampia in Italia che all’estero? La risposta qualitativa che dà Barisitz è “sì”. All’interno di un campione di paesi (Austria, Finlandia, Francia, Germania, Irlanda, Italia, Portogallo, Spagna e Regno Unito), Barisitz identifica una disciplina “media” in quella adottata dalla Francia, e rispetto a questa la definizione italiana è – qualitativamente – più gravosa (ad esempio, evidenzia anche Bottarelli, in Italia si includono anche forme di scaduto per problemi “temporanei” e “risolvibili in tempi ragionevoli”). Questo “gonfia” la massa di credito da “coprire”, facendo apparire gli accantonamenti come percentualmente minori.
In realtà, è la stessa BdI che ammette il problema, e ne ha tenuto ben conto nel corso delle proprie ispezioni, come vedremo più avanti. Va detto anche che in generale la definizione delle situazioni di difficoltà del debitore, quando non supportate da ritardi effettivi nei rimborsi superiori a 90 giorni, è abbastanza generica, e permette – e ha ampiamente permesso – una certa “gestione” delle posizioni. Lo stesso Barisitz, che solleva il problema in termini qualitativi, evita esplicitamente di esprimersi sull’effettiva rilevanza quantitativa del problema. Esistono comunque ben altri parametri che incidono nel trattamento del default, come i downward requirement, il ruolo delle garanzie, il trattamento dei crediti ristrutturati, e via dicendo. La valutazione generale si conferma maggiormente “conservativa” per l’Italia. Ma andiamo più nel dettaglio.
Una lamentela diffusa è che i dati italiani non vengano depurati della parte “coperta” da garanzie. Anzitutto la presenza di una garanzia non incide sulla definizione di default in nessun Paese, tranne che in Portogallo. Il problema resta quindi sul solo calcolo dell’esposizione di quanto è comunque, in tutta Europa, un credito in default. Su questo punto pare che manchi – al momento – una disciplina omogenea in Europa, ma se si guarda al calcolo dei requisiti di capitale, anche in Italia le posizioni vengono “pesate” in relazione alla presenza di garanzie in forza di una disciplina europea. La questione fondamentale è che proprio come principio (Fmi) si vuol che il credito venga concesso direttamente in ragione delle capacità del debitore di assolvere di per sé all’obbligazione, in un certo senso proprio con i maggiori redditi dall’impiego/investimento permesso dal finanziamento stesso; detto questo, ha senso che lo stato di default venga definito a prescindere da garanzie esistenti, e avrebbe un senso anche che, per stimolare le capacità di valutazione professionale del credito, le coperture – almeno in parte – prescindessero dalle garanzie (che restano come recupero del credito dichiarato perso).
Se da una parte, proprio in Italia, si attacca questo principio, dall’altra ci si lamenta poi che il prestito venga concesso “a chi già li ha” o può contare su garanzie esterne, andando così a deprimere il “merito” di chi ha solo capacità di lavorare o buone idee (il che riduce la mobilità sociale); chi punta tanto l’attenzione su una visuale “sistemica” dovrebbe pensare anche a questo. In altre parole, il problema potrebbe stare non nelle definizioni italiane, ma in quelle più lasche degli altri paesi. E tutto questo senza voler addentrarsi sull’effettivo valore nella pratica di alcune garanzie personali e reali…
Un problema ben maggiore sono i downward requirement, cioè il fatto che il peggior status di una certa forma di affidamento venga automaticamente esteso a tutte le forme di affidamento che fanno capo a quel cliente: se ho un leasing, un mutuo ipotecario e un finanziamento personale, e comincio a saltare le sole rate di leasing fino a far qualificare quell’unico “prodotto” come uno scaduto o peggio, sarà l’intera mia esposizione fatta di mutuo leasing e prestito a venir qualificata con quel peggior status, indipendentemente dalla regolarità dei pagamenti su questi altri “prodotti”. Solo la Finlandia ha un atteggiamento ugualmente rigido. L’assenza di un orientamento delle autorità internazionali su questo punto fa pensare che il requisito sia effettivamente eccessivo. C’è una ratio per questa “dura” posizione di BdI? Sospendo la risposta.
Un problema “sistemico” che tende a generare indici di copertura “bassi” è invece evidenziato direttamente da BdI: le procedure giudiziarie di recupero dei crediti sono particolarmente lunghe, e inducono le banche a costituire con gradualità gli accantonamenti. La lentezza della giustizia è un problema fondamentale dell’Italia, e questa ne è un’ulteriore manifestazione. Credo non debba stupire che poi proprio in Italia si finisca per adottare criteri particolarmente stringenti sul “default”, come le clausole di downward requirement: in qualche modo il sistema deve recuperare gradi di prudenzialità persi su altri aspetti.
Una prima conclusione è che, a livello qualitativo, le comuni lamentele hanno un parziale fondamento. Ma a livello quantitativo c’è ancora molto da dimostrare per definire fino a che punto le “durezze” formali di BdI pesino sulla concessione del credito e quanto la fase corrente non sia, più semplicemente, la conseguenza di “cattivi prestiti” concessi in passato e di un sistema di incentivi anche giuridici perversi.
Andando ora sul lato quantitativo, richiamo i risultati delle ultime ispezioni di BdI, condotte su 20 gruppi bancari sia su un campione “mirato” di posizioni (guardando a sofferenze, incagli, scaduti) che su un campione “statistico” (guardano alle sole sofferenze). BdI ha riscontrato tutta una serie di carenze nella gestione di crediti e garanzie; riallineate le pratiche agli indirizzi di BdI, le rettifiche sui crediti sono salite da 7,4 miliardi di euro a 10,8 miliardi per il campione “mirato”, e da 1,65 miliardi a 1,95 miliardi per il campione “statistico”. Guardando al campione “mirato”, quel che salta all’occhio è che, pur escludendo il discorso dello scaduto, gli accantonamenti erano poco più di due terzi del dovuto: questo significa che vi è un problema effettivo di tendenziale sotto-copertura rispetto alla rischiosità del portafoglio. Il punto quindi non è l’inclusione o meno degli scaduti nel credito a “default”, bensì il livello di accantonamenti rispetto alla qualità del credito, o meglio la dinamica della qualità del credito.
Questo non deve stupire. Dovremmo infatti chiederci come siano state possibili certe retribuzioni e dividendi in una fase congiunturale tanto difficile e per di più nel fanalino di coda (Grecia esclusa) dell’economia europea. Non è un caso che BdI, a fine analisi, suggerisca la riduzione dei costi operativi delle banche specificando “il contenimento delle politiche di distribuzione degli utili e di remunerazione degli amministratori e dirigenti, coerentemente con la redditività e l’adeguatezza patrimoniale di ciascuna banca”. Forse è questo il pungolo più fastidioso, per alcuni, di tutta la vicenda (ed è una chiave di lettura del perché l’Abi abbia recentemente ritirato l’adesione al Ccnl bancario).
Prendendo spunto anche dalle lamentele di Bottarelli, faccio alcune osservazioni finali. Quando si sottolinea che in Italia chi controlla (BdI) è partecipato dal controllato (le banche), si dovrebbe ricordare che questo vale per qualsiasi Banca Centrale (salvo la Bce, che è però partecipata dalle singole Banche Centrali, a loro volta partecipate dalle banche private). D’altra parte, se l’ente viene costituito a supporto delle banche (prestatore di ultima istanza), come minimo il suo capitale deve venir fornito dagli stessi avvantaggiati. Riguardo la sua gestione invece va ricordato che BdI è un ente amministrativo pubblico, ma che comunque è ben difficile immaginare che il suo obiettivo sia deprimere il più possibile i propri soci.
In linea con quanto sopra, BdI non opera in una torre d’avorio: prima che una normativa vada in vigore, BdI diffonde documenti preparatori a vari stadi sollecitando considerazioni da parte degli interessati (giusto un recente esempio: CRR e CRD IV). Questo non significa che accolga tutte le opposizioni presentate, ma non è infrequente che alcune norme vengano riviste in modo più favorevole per gli istituti (a patto di esaustive argomentazioni e analisi di impatto). Poi, purtroppo, la Banca Centrale resta un ente amministrativo pubblico e non una struttura di mercato, e alcuni limiti di visione certamente restano.
Sulla questione della lunga (18 anni) detrazione delle perdite bancarie, va ricordato che siamo in Italia, e che negli ultimissimi anni c’è stata una tendenza a svalutare meno del dovuto pur di garantire certi utili, mentre il passato è fatto di tendenze a far figurare maggiori accantonamenti (non solo sui crediti) per ridurre la base imponibile fiscalmente; la lunga detraibilità delle perdite discende dalla considerazione di queste ultime pratiche. È comunque vero che attualmente la situazione si presenta quasi diametralmente opposta, e c’è spazio per riflessioni.
L’Italia è forse il Paese con il sistema di Vigilanza Prudenziale bancaria più strutturato e penetrante. Qui sta forse la ragione dell’avere, proprio durante il processo di unificazione della vigilanza bancaria europea, un italiano alla guida della Bce (ente che dovrà svolgere le funzioni ispettive) e un altro italiano alla guida dell’Eba (ente che dovrà declinare in termini operativi la normativa emanata dall’Ue).
Dall’unificazione dei criteri di Vigilanza attorno a uno standard europeo simil-francese l’Italia potrà ottenere qualche alleggerimento, mentre altri (Austria, Germania, Portogallo e Regno Unito) potrebbero uscirne peggio. Ma se l’economia italiana continua a fornire pessime performance, non possiamo non aspettarci ulteriori deterioramenti della qualità del credito e quindi ulteriori incrementi nelle coperture del rischio, e questo a prescindere da qualunque definizione di “default” si decida di adottare. Non si tratta di voler indurre un credit crunch, è che non possiamo più fingere che le cose stiano andando bene.