Scoppio della bolla immobiliare, crollo dei mercati azionari e tassi prossimi allo zero. Questa la situazione del Giappone agli inizi degli anni Novanta. Dati alla mano, la crisi nipponica appare oggi come una sorta di prova generale della crisi del 2007. Eppure già un anno dopo, agli inizi del 2008, una nutrita schiera di economisti si impegnava a negare qualsiasi affinità tra i due crolli.
Le differenze di carattere economico erano evidenziate con grande enfasi: i saldi della bilancia commerciale (la differenza tra import ed export), innanzitutto. Il Giappone, uscito sconfitto dal secondo conflitto mondiale, aveva spostato la guerra agli Stati Uniti sul terreno commerciale fino a diventare il più grande esportatore verso gli Usa. Questi ultimi, invece, in compagnia del Vecchio Continente si sono ritrovati allo scoppio della bolla subprime nel ruolo per nulla invidiabile di più grandi importatori del pianeta.
Una seconda differenza, sempre economica ma con un rilievo più monetario, riguarda la posizione finanziaria di Occidente e Giappone all’esordio delle rispettive crisi: i paesi occidentali sono arrivati all’appuntamento con lo scoppio dei subprime pesantemente indebitati, mentre il paese del Sol Levante, forte del surplus commerciale tipico di un paese esportatore, entrò nella tempesta economica dei primi anni Novanta potendo contare su grandi risparmi pubblici e privati.
Non che le disponibilità monetarie giovarono alla ripresa, anzi. Inondati di liquidità, i mercati dello yen si ritrovarono nell’incapacità di impiegare una raccolta di capitali troppo ampia per una congiuntura negativa. Le conseguenze furono talmente devastanti da costituire un caso da accademia: tassi di interesse precipitati sotto il punto percentuale e crescita economica a zero-virgola per più di un decennio. Sulla provenienza dell’abbondante liquidità in Occidente, invece, nessuno già all’epoca nutriva troppe illusioni: il boom degli anni 2000 era per massima parte finanziato a debito.
Tuttavia, un’analogia, per nulla economica, anzi azzarderei dire antropologica, tra queste due crisi esiste. È un’analogia che ho rilevato mentre un collega londinese mi introduceva alla complessità, per certi versi paradossale, di cucinare un pesce servendolo crudo: il sushi, insomma. Per preparare questa prelibata pietanza nulla è lasciato al caso: dalla lama che non scalda il filetto durante il taglio, fino al sapiente utilizzo di zucchero e sale nella cottura del riso.
PER CONTINUARE A LEGGERE L’ARTICOLO CLICCA IL PULSANTE >> QUI SOTTO
Passando dal bancone del sushi al piano della storia, si potrebbe dire che nel Novecento Giappone e Occidente hanno scoperto di coltivare una passione comune per l’eccellenza tecnica. E dal secondo dopoguerra il Giappone ha dimostrato piena padronanza di una tecnica molto particolare. La tecnica bancaria. All’apice della crescita commerciale nipponica, nel 1990, le cinque banche più grandi al mondo in termini di bilancio erano tutte giapponesi. Tra queste, Fuji Bank e Mitsubishi Bank, prima dell’inesorabile declino, contribuirono in modo fondamentale alla creazione del mercato degli swap e dei corporate bond, così come oggi li conosciamo.
Io stesso ho appreso i fondamentali del trading da un ex operatore giapponese. Per un’ironia della sorte, l’istituto presso il quale egli insegna, si trova poco distante dall’Old Billingsgate market, il vecchio mercato del pesce situato sulla riva destra del Tamigi, in piena City. Un breve aneddoto tratto dall’esperienza lavorativa del mio professore: all’epoca della sua prima assunzione come apprendista operatore a Tokyo, nei primi anni Ottanta, le sale cambio degli istituti nipponici erano gremite di neolaureati che senza tregua calcolavano prezzi obbligazionari per i senior trader. I calcoli erano effettuati a matita, su un quaderno a quadretti, con il solo ausilio di una calcolatrice.
Oggi sui mercati finanziari, e non solo lì a giudicare dalle stazioni radio che si ascoltano sui caratteristici taxi londinesi, c’è molta voglia di anni Ottanta. C’è voglia di cancellare la tecno finanza degli anni Novanta che, allontanandosi dall’economia reale, è rimbalzata da una crisi all’altra. Non è un caso che nel mezzo di questa confusione, mista a un vago sentimento di nostalgia, nelle sale cinematografiche sia arrivato il secondo capitolo di un classico “dell’alta finanza”: Wall Street II. Nel sequel il protagonista rispolvera il famoso motto pronunciato durante una concitata assemblea di azionisti: “Greed is good”. L’avidità è buona, proclama Gordon Gekko.
La pellicola originale è ambientata nel boom degli anni Ottanta, quando le banche di Wall Street in piena epoca reaganiana accettano la sfida nipponica e – una volta rimossi i dazi doganali dall’Amministrazione USA – trasformano il pacifico in un canale commerciale in chiave anti-sovietica. Come sottolinea Robert Reich nel suo libro “Supercapitalismo”, il commercio tra le due sponde del Pacifico è alla base del fenomeno che oggi passa sotto il nome di globalizzazione. A questo proposito, è emblematico che l’APEC (il forum per la cooperazione economica sul Pacifico) sia stato creato proprio nel 1989, anno della caduta del muro di Berlino.
Oggi il Giappone ha lasciato il campo, o meglio l’oceano, a nuove economie emergenti e gli scambi si sono intensificati fino a raggiungere un volume pari al 44% dell’economia globale. Per intuire la portata di questo nuovo asse, è sufficiente sfogliare qualcuna tra le numerose ricerche dedicate all’argomento. Un fatto salta subito agli occhi: sempre più spesso nelle pubblicazioni professionali la cartina del mondo è centrata sul Pacifico.
Eppure la chiave per leggere questa crisi, la crisi della tecno-finanza e, se vogliamo, della tecnica in generale, potrebbe arrivare proprio dal vecchio Mediterraneo. In questo bacino, ormai relegato ai margini delle nuove carte, gli uomini si sono lanciati per secoli in grandi imprese, non solo economiche, avventurandosi spesso con mezzi di fortuna, ma sapendo bene di che pasta fosse fatto l’uomo. Su questa consapevolezza, che dal Mediterraneo è approdata in tutto l’Occidente, si potrebbe quasi immaginare il prossimo episodio della saga “Wall Street”. All’ennesima arringa di Gordon Gekko, qualcuno potrebbe ribattere: “Greed is good. Beauty is better”.