Mentre per i sondaggisti non si avvertono particolari novità nelle rilevazioni e si dà per scontato un risultato nullo per il 4 marzo, i leader di Pd, FI e M5s cercano di rimescolare le carte e stanno attuando in extremis, ognuno in casa propria, un “cambiamento di scena” prima di aprire il sipario sull’ultimo atto con il deposito delle liste a fine gennaio. In effetti nelle ultime settimane di legislatura c’è stato molto disordine e lo stesso Quirinale non è esente da responsabilità, come si è intravisto dal breve e sfuggente messaggio di Capodanno. Sergio Mattarella è stato esemplare nel preoccuparsi di garantire stabilità e affidabilità dell’Italia sulla scena internazionale facendo proseguire e assistendo Gentiloni, ma nel finale di legislatura il fastidio verso Renzi non è stato buon consigliere. Prima Pietro Grasso e poi Laura Boldrini hanno dato luogo a uno spettacolo inedito con un tale assordante silenzio del Quirinale che è sembrato un assenso. Dopo essere stati per cinque anni riveriti presidenti di Senato e Camera si sono messi alla testa di un partito di transfughi contro il partito protagonista dell’attività legislativa da essi presieduta (con numerosissimi atti discrezionali molto discutibili). Non solo è un fatto mai visto, ma di certo accredita l’immagine di un paese dove i numeri due e tre delle supreme cariche dello Stato scommettono sul giudizio negativo del governo del paese.
Da parte sua Matteo Renzi non può recitare la parte della vittima. La sera della sconfitta referendaria era caduto in piedi: era pur sempre l’uomo di un programma di riforme. Volendo invece ugualmente rimanere o comunque tornare a Palazzo Chigi, anche in quella che egli stesso aveva definito una situazione da “palude”, ha perso indubbiamente quota e consenso. Ha provocato la scissione del partito per la fretta di fare il congresso con l’obiettivo di tornare a Palazzo Chigi prima dell’estate. Sfumate dopo mesi di ripetuti tentativi le elezioni anticipate, ha fatto due leggi elettorali — una sul modello tedesco bocciata e poi il Rosatellum approvato — entrambe del tutto in contraddizione con quanto aveva sempre sostenuto. Anche alla Conferenza programmatica non è stato capace di indicare un nuovo percorso di riforme, ma ha lanciato di volta in volta idee quasi a caso: dal non rispetto del vincolo di deficit all’abolizione del canone Rai. Come segretario di partito non ha lesinato critiche ai ministri economici e ha lasciato che su una questione importante come l’Ilva si scontrassero presidente della Regione e presidente del Consiglio entrambi del Pd. Ha poi chiesto la testa del governatore della Banca d’Italia e non avutala ha imposto, alla vigilia dello scioglimento delle Camere, un’affrettata commissione d’inchiesta che lo mettesse sotto accusa con il risultato però che quando Visco si è presentato gli “inquirenti” del Pd — a cominciare dal presidente del Pd Matteo Orfini — sono rimasti zitti perché ormai al centro dell’attenzione erano finiti la Boschi e la Banca Etruria.
Ma ora il leader del Pd cerca di evitare la personalizzazione e un nuovo referendum su se stesso. Al voto vuol presentare un partito-squadra con un’immagine di pluralità, riservandosi così una generale chiamata di correità da Gentiloni a Franceschini in caso di sconfitta. E’ già un segno negativo il modesto risultato ottenuto con Fassino per dar vita a una coalizione dopo la sconfitta in Sicilia. Delle tre liste che affiancano il PD solo quella della Bonino è un “valore aggiunto” in quanto le altre due sono promosse da chi era già acquisito da anni (il ministro ex berlusconiano Lorenzin e il viceministro socialista Nencini). E comunque sono tutte liste che a fatica superano l’1 per cento e i cui leader in questi giorni chiedono posti sicuri dal Pd nell’uninominale. E dopo anni di rottamazione e innovazione la mappa dei collegi “sicuri” del Pd è ancora quella della “ditta” tosco-emiliana ex Pci.
Ma quale che sia il risultato, Matteo Renzi rimarrà al Nazareno grazie a una inamovibile maggioranza nella direzione del partito e nei prossimi gruppi parlamentari. Il piano di D’Alema secondo cui una nuova sconfitta elettorale del Pd porterebbe alla caduta di Renzi e al ricompattamento ulivista del centro-sinistra perde credibilità e il neonato partito sbanda tra Grasso e Boldrini divisi. Il Quirinale è stato imprudente a lasciar fare e si trova di fatto coinvolto nel varo di un partito che sta diventando un guazzabuglio di rancori con tanti ex leader sconfitti, dalle idee più diverse e disponibili a qualsiasi avventura.
Ne approfitta il M5s, dove sono in corso novità con Beppe Grillo che pur rimanendo “garante” si defila lasciando in primo piano Luigi Di Maio. Sotto la regìa di Casaleggio i 5 Stelle cercano di presentarsi non più nel segno del “vaffa”, ma con il giovane “capo politico” — dal look rassicurante del fidanzatino della Barbie — non vogliono più uscire dall’euro e tranquillizzano Nato, imprenditori e vari palazzi di potere. Dando per acquisiti i voti estremisti, con Di Maio si cerca di aggiungere quelli di chi vuole genericamente “facce fresche” in Italia (un’idea fissa di Kissinger negli anni 70 che Andreotti commentava: “Spazio ai fresconi!”).
Ma da non sottovalutare è l’operazione che sta mettendo in atto Silvio Berlusconi. Mentre Renzi ha cancellato la Mogherini estromettendola ormai da anni dalle iniziative del Pd, il Cavaliere può vantare con Tajani l’unica posizione italiana oggi utile a Bruxelles (in aggiunta all’aver fatto Draghi presidente della Bce). Non più demonizzato — a più di 80 anni e incandidabile —, il Cavaliere sta portando al voto una coalizione di centro-destra che sembra la riedizione della “balena bianca” democristiana con insieme filo-Le Pen, filo-Merkel e anche filo-Macron. A far da collante e da guida c’è un establishment moderato e prudente — un po’ FI un po’ Mediaset — di stampo doroteo avvezzo alle “convergenze parallele”. E’ allo stato attuale la coalizione che meglio calza l’attuale legge elettorale.