“Nella storia della tecnologia”, dice Alberto Bombassei, uno dei più apprezzati imprenditori italiani, fondatore della Brembo, multinazionale dei freni, “le innovazioni hanno sempre creato più posti di lavoro di quanti ne abbiamo distrutti. Certo, oggi siamo di fronte a un quadro nuovo, tutto da valutare. Ma nel frattempo, è indispensabile che soprattutto i giovani ma anche tutti i lavoratori aggiornino le loro competenze alle nuove necessità”. Parole sante, che suonano — se non altro — incoraggianti dopo l’ennesima stima funesta sull’impatto che la robotizzazione spinta legata all’Internet delle Cose e all’Intelligenza artificiale sta avendo e avrà su tutti i settori dell’economia. Parole scottanti dopo i dati che “The European House-Ambrosetti” ha presentato, sulla base di una propria ricerca, nel maxi-convegno di Cernobbio l’ultimo week-end.
Secondo la ricerca, nei prossimi quindici anni in Italia circa 3,2 milioni di lavoratori italiani potrebbero perdere il posto a causa dei robot. Esaminando le 129 professioni con cui l’Istat divide il mercato del lavoro in Italia, i ricercatori hanno pronosticato che in agricoltura e pesca rischia il posto il 25% degli occupati, nel commercio il 20%, nel manifatturiero il 19%. Sia in trasporti e logistica sia in finanza e assicurazioni, il 17% dei lavoratori potrebbe trovarsi entro il 2032 fuori dal mercato. In realtà questo totale dei 3,2 milioni altro non è che un punto intermedio tra le stime minime, che parlano di 1,6 milioni di posti sacrificati, e quelle più crudeli che dicono 4,3 milioni.
Ma si insiste a chiamarlo “problema” solo perché non si vuole cambiarne il nome in “opportunità”. Lavorare un po’ meno, scaricando sui robot le funzioni manuali più usuranti e parte di quelle intellettuali ma ripetitive e a scarso valore aggiunto può essere correttamente visto anche come un passo avanti verso l’emancipazione dell’umanità dalla componente più pesante e sgradevole del lavoro. Basta visitare una fonderia — per esempio, quelle pur modernissime della Brembo — per farsi un’idea vivissima di un girone infernale dantesco, con la temperatura di lavoro a 40 gradi, ed esclusivamente personale africano addetto agli altiforni, perché più abituato alle alte temperature. Una vera anticamera dell’inferno, che non guasterebbe robotizzare.
Il problema è dunque più quello del reddito evaporato che non quello del lavoro perduto: e il bello di questa lettura è che dimostra come questo problema della rarefazione dei posti non cada soltanto sulle sue potenziali vittime dirette — quelli che perdono il posto – ma anche sui datori di lavoro, sugli imprenditori, che senza avere a disposizione una platea di soggetti dotati di reddito e dunque capaci di consumo, non sapranno a chi vendere i prodotti e i servizi realizzati dalle loro imprese automatizzate.
Dunque, quando in tanti casi sarà diventato più conveniente acquistare un robot al posto di assumere un essere umano per svolgere alcuni mestieri, che ne sarà dei consumi che quei lavoratori e le loro famiglie assorbono oggi?
Di fronte a questa domanda tutt’altro che solidale ma squisitamente capitalistica c’è da scommetterlo: il capitale farà fronte. Troverà il modo di redistribuire diversamente il reddito, per mantenerlo in circolo. Lo chiameranno salario aumentato, come la realtà digitale. Lo chiameranno forse tassa sui robot. Ma qualcosa faranno. Non per amore: per denaro.