Si potrebbe definire la triste parabola di Telecom Italia. Un gigante italiano della tecnologia moderna passa in avventurate mani spagnole, quelle di Telefonica, che già era presente nella cassaforte di Telco. E tutta la vicenda di questi anni dopo la privatizzazione, dopo il lungo “romanzo telefonico” che è passato davanti agli occhi degli italiani, fa intravedere una sorta di storia fratricida che richiama addirittura gli anni della fine del Rinascimento italiano, quando per fare “affarucci” alla fine si chiamavano gli stranieri, che poi sono sempre gli stessi, spagnoli o francesi. All’incirca due anni fa, si stava discutendo del progetto di “banda larga” che avrebbe dotato Telecom di una modernissima tecnologia. A quel progetto avrebbe partecipato la Cassa depositi e prestiti, probabilmente sarebbero entrate anche altre società, altri soggetti finanziari e si parlava anche di un interessamento di Mediaset. Scattò subito un’opposizione da parte dei vertici di Telecom, cadde poi il governo Berlusconi e il successivo Governo di Mario Monti accantonò il problema. Il risultato è che non solo non c’è la “banda larga”, ma non c’è più neppure il controllo di Telecom Italia.
Francesco Forte, economista, ex ministro delle Finanze, dice apertamente che la vicenda Telecom rappresenta innanzitutto “una grave perdita per l’Italia”, ma è anche l’emblema della storia di questa “seconda repubblica”: «Si privatizza, non si colgono occasioni e poi ci si sfila cedendo agli stranieri, non comportandosi neppure da grandi speculatori, ma solo per fare affarucci da cucina. E il paradosso è che tutti i protagonisti di questi anni hanno fatto passi da gigante, sono rimasti alla ribalta dell’economia e della politica italiana».
Sembra un giudizio molto drastico.
Come è possibile giudicarlo diversamente. Che cosa hanno fatto tutti quelli che sono passati attraverso Telecom Italia? Che cosa si è fatto in tutti questi anni per arricchire un grande patrimonio tecnologico come Telecom? A me viene in mente soprattutto lo “spionaggio” telefonico. Sembra che ci sia soprattutto un concetto di anti-modernità e di piccoli affari. Allora, si pensi solo a tre progetti che si potevano realizzare in questi anni. Il primo era la “banda larga”, e non si è fatto. Poi c’era l’ “alta velocità”, che va ancora a rilento, per le note proteste. Aggiungiamoci anche il “ponte sullo Stretto”, che è stato del tutto abbandonato. Se si fossero realizzati questi tre progetti, l’Italia oggi sarebbe un cantiere. Invece stiamo facendo il calcolo delle aziende, anche delle grandi aziende, in crisi, con una perdita di patrimonio tecnologico che era all’avanguardia.
A quali settori si riferisce esattamente?
Ai tempi della cosiddetta “Milano da bere”, eravamo tra un gruppo d’avanguardia nell’elettronica, nelle biotecnolgie, nella televisione e dotati anche di una solida siderurgia. Facciamo i calcoli adesso e poi i paragoni?
Ma ritornando a Telecom Italia, a tutta questa lunga vicenda che parte dalla privatizzazione e che è stata ricca di colpi di scena, come la si può giudicare?
L’errore fu all’inizio, quando si distrusse Italtel, che fu addirittura “cannibalizzata” da Romano Prodi e dalle sue scelte, non solo in questo settore. Il seguito è determinato dalla prassi ormai consueta nel capitalismo italiano. Si privatizza, non si sviluppa assolutamente nulla, non si modernizza nulla, si gestisce anche male e alla fine si fanno, appunto, “affarucci”. Contemporaneamente ci si fanno gli sgambetti l’uno con l’altro. A me viene in mente una sorta di “Disfida di Barletta” al contrario. La sequenza di come ci si è opposti alla “banda larga”, solo perché tra i soggetti finanziari poteva entrare Mediaset è impressionante. Partecipai direttamente al dibattito sul progetto.
Ma il problema sta nella privatizzazione?
Il problema sta nel come è stata realizzata e come si è proseguito in questi anni. Alla fine qui, nel caso di Telecom Italia, siamo di fronte a una perdita enorme per scelte fatte senza criterio.
(Gianluigi Da Rold)