Oggi al centro non solo della politica, ma del futuro del Paese in questo periodo cruciale in cui si tenta di uscire da una delle peggiori crisi economiche internazionali, è lo scontro tra leggi ad hoc e processi ad hoc. Il paese è diviso tra chi sospetta il primo ministro di essere un delinquente alla ricerca dell’immunità e chi ritiene che la magistratura sia, come ha scritto Galli della Loggia sul Corriere della Sera, un partito politico.
Usare lo scandalo per fare uscire di scena una personalità politica è in effetti un espediente antico. Talvolta si trattava in effetti di un cospiratore o di un saccheggiatore. È difficile però sostenere che in materia il fine giustifica i mezzi. Numerosi sono stati infatti i casi in cui si sono eliminati uomini onesti e di valore coinvolgendoli nemmeno direttamente, ma attraverso l’incriminazione di loro familiari peraltro risultati poi, a loro volta, innocenti. Ancora recentemente ex giornalisti comunisti hanno raccontato retroscena legati alla montatura nel dopoguerra dello “scandalo Montesi” che servì a colpire il leader democristiano Attilio Piccioni mettendo nel mirino suoi familiari poi assolti.
Oggi però in Italia si registra un fenomeno senza precedenti e cioè lo svilupparsi di una serie di incriminazioni che riguardano un leader di partito che per la terza volta è alla guida del governo. Una scia di avvisi di garanzia che ha il suo inizio sin dalla prima volta in cui aveva vinto le elezioni: dal 1994 piovono su chi guida o il governo o l’opposizione avvisi di garanzia di corruzione. La quantità diventa anche in questo caso qualità. E cioè: se negli anni Novanta lo scandalo poteva essere usato sul piano politico per fare “aprire gli occhi” agli elettori, smascherare un rivale, indebolirlo e quindi rovesciarlo portando alla vittoria, nella successiva tornata elettorale, lo schieramento avversario, oggi siamo in una situazione radicalmente diversa.
Dopo più di quindici anni di ripetuti e incessanti coinvolgimenti giudiziari gli atti della magistratura contro il capo del governo si riversano sull’opinione pubblica ormai come un “dejà vu”: acqua sulla roccia in quanto il consenso elettorale è sostanzialmente immutato. Sul piano politico – dopo che dalle tangenti si arriva a ipotizzare addirittura la collusione con la mafia – non si tratta più di far “aprire gli occhi” all’opinione pubblica. La novità nel rapporto tra Berlusconi e le inchieste è rappresentato dal fatto che i suoi avversari politici hanno ormai rinunciato alla prospettiva di un disarcionamento per via elettorale.
Anzi la sinistra guarda con apprensione alle prossime scadenze elettorali e teme ulteriori ridimensionamenti, mentre in area governativa le tensioni sono determinate proprio dalla spartizione di un “bottino” dato per scontato alle Regionali (vedi i litigi dalla Campania al Lazio ed al Piemonte). L’obbiettivo è pertanto quello di impedire al presidente del Consiglio “tecnicamente” di continuare a vincere e a governare e cioè l’espulsione dall’agone elettorale.
Posta la questione in tali termini – totale scetticismo sull’azione parlamentare e sul ricorso alle urne riponendo ogni speranza solo su un “arrivano i nostri” giudiziario – è evidente che si va incontro a uno sconquasso nel rapporto tra politica e giustizia. Se l’unico vero modo di rovesciare Berlusconi è quello giudiziario inevitabilmente l’intero scontro politico si sposta sul terreno del codice di procedura penale che diventa un campo di battaglia senza esclusione di colpi.
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Il fatto che il capo del governo, leader del potere esecutivo, si incontri con il presidente della Camera, leader del potere legislativo, per concordare un iter blindato di un provvedimento che riguarda il Terzo potere dà la misura del piano inclinato su cui ci si è messi. Ognuno – da destra e da sinistra – può argomentare le proprie versioni, ma la sostanza non cambia in quanto da entrambe le parti si dichiara di temere una sorta di colpo di stato.
È molto elegante in una tale situazione atteggiarsi a persone pacate e responsabili invitando ad “abbassare i toni”, ma il rimedio non può che partire dalla messa a fuoco dell’origine del male. L’origine non è nell’esistenza di un’imputazione contro il capo del governo, ma nel fatto che a tale imputazione la maggior parte degli italiani risulta reagire con scetticismo o indifferenza.
Sarebbe quindi bene riflettere su quel che persino una personalità come Luciano Violante, non certo sospettabile di “garantismo” o di livore contro i pubblici ministeri di sinistra, ha negli ultimi tempi più volte rilevato: la mancanza di una credibile autodisciplina da parte dei magistrati.
L’ex pm comunista insiste infatti sulla necessità di individuare un nuovo soggetto a cui affidare il compito di assicurare la disciplina nel mondo giudiziario in quanto il bilancio dell’azione svolta in questo campo da parte del Consiglio superiore della magistratura è sostanzialmente fallimentare.
La proposta Violante di chiedere al collegio degli ex presidenti della Corte costituzionale di occuparsene è il segno della gravità a cui si è ormai arrivati. I rapporti tra i poteri dello stato hanno nel nostro ordinamento costituzionale come elemento centrale l’autonomia della magistratura e, a sua volta, l’autonomia della magistratura ha come elemento centrale l’autodisciplina.
Se il Csm non assolve con credibilità questa funzione esso ha la responsabilità di minare l’autonomia della magistratura e di provocare contromisure d’emergenza dettate dalla convinzione di mettersi al riparo da iniziative dal seno di un potere in cui l’autonomia è vista come irresponsabilità: legittime quanto rischiose.
A presiedere il Csm c’è il presidente della Repubblica. È presumibile che conosca le analisi di Violante ed è auspicabile che almeno tra ex comunisti che hanno già strettamente collaborato in passato si parli in modo costruttivo e ci si renda conto che insistere in una lotta politica condotta non nelle urne e nel Parlamento alla fine si sega il ramo dell’albero su cui si è seduti. Se “la libera interpretazione del codice” da parte di un pubblico ministero e “il libero convincimento” di un giudice – secondo personalità notoriamente critiche nei confronti di Berlusconi – sono gestiti nel vuoto del controllo disciplinare (Violante) e gestendo il potere coercitivo come un partito politico (Galli della Loggia) qualche intervento legislativo in materia non è procrastinabile.