“Ho energia e grinta”: così sul Corriere della Sera Matteo Renzi riassume il proposito di guidare il Pd senza bisogno della minoranza post-Pci. Ma la scissione — in realtà — è un rilancio o una trappola: sancisce una leadership sulla cresta dell’onda o in declino?
L’ex premier di certo ha bisogno di una rivincita dopo la sconfitta del 4 dicembre, di un congresso che prima delle elezioni politiche rappresenti una sorta di nuovo referendum su di lui che lo veda vincente. Inoltre la minoranza ex comunista attua la rottura con vari handicap. Da Massimo D’Alema a Pier Luigi Bersani sono certamente personalità di rilievo, ma evocano tempi passati e, soprattutto, sconfitte: tutti disarcionati, uno dopo l’altro, da Silvio Berlusconi e poi messi nell’angolo — nel “loro” partito — da un gruppo di giovani dirigenti locali.
Inoltre la posizione politica degli scissionisti appare un po’ confusa: escono dal partito da sinistra però caratterizzandosi come “primi della classe” nel sostegno al governo — tutto renziano — di Gentiloni fino al 2018. Per fare che cosa? Sostanzialmente: per discutere.
Quando entrano nel merito delle “riforme” parlano di imposta patrimoniale, tutela clientelare degli insegnanti pubblici e un diritto di veto della Cgil da anni 70. Il danno che però possono fare a Renzi è rilevante.
Una scissione non porta voti. L’opposizione a Renzi che da interna assume la dimensione di gruppi parlamentari distinti non perde certo visibilità. Se Renzi vuole il congresso-scissione prima delle elezioni comunali di giugno per evitare che il deludente risultato possa dar fiato all’opposizione interna, con la scissione aumenta il rischio di un negativo battesimo elettorale del Pd come Partito di Renzi che azzoppa in partenza la corsa alle politiche.
E’ infatti la realtà locale che il leader del Pd sembra sottovalutare. Con lui il partito è passato dal mezzo milione di iscritti del 2013 a meno dei 100mila di oggi e ora a uscire è una “comunità” certamente nostalgica, ma che è pur sempre una rete militante e cioè organizzata sul piano nazionale, animata da forti anche se discutibili idealità e non priva di risorse finanziarie. Il Pd di Renzi perde leadership territoriali importanti come i governatori di Toscana e Puglia e i sindaci e governatori renziani, dal Comune di Milano alla Regione Emilia non faranno certo una “caccia alle streghe” nei confronti dei dissidenti che li destabilizzerebbe e screditerebbe.
La scissione rischia di essere per Renzi una trappola in quanto in uno scenario politico in cui la prima cosa da fare è una nuova legge elettorale, il potere di contrattazione di Renzi non aumenta. Rischia cioè di finire in scacco matto: o si siede al tavolo a trattare riconoscendo che non è più il leader che “dà le carte” oppure va a eleggere Senato e Camera con la proporzionale in un quadro di totale isolamento (salvo Angelino Alfano).
Si delinea cioè il ritorno a uno scenario di sinistra “plurale” e il venir meno del partito “a vocazione maggioritaria”, piedistallo indispensabile per la leadership di Renzi.
L’idea che l’ex sindaco di Milano, Giuliano Pisapia, possa venire in soccorso di Renzi come una sorta di “Verdini di sinistra” è un miraggio fiorentino. Al contrario proprio il fondatore di “Campo progressista”, nel caso della scissione, diventa non il leader di una sinistra “collaborazionista”, ma il naturale punto di riferimento per una ricomposizione della sinistra italiana che risulterà prossimamente, già dalle urne di giugno, come fatta a pezzi proprio per responsabilità di Matteo Renzi. E’ questo il senso del suo appello contro la scissione.
La scissione rischia di annacquare il “carisma” del rottamatore: già ha perso Palazzo Chigi travolto dalla sconfitta referendaria e, in aggiunta, tornato a tempo pieno alla guida del Pd dopo due mesi lo sfascia risuscitando Massimo D’Alema che, da isolato e dimenticato, è circondato da governatori di Regione e gruppi parlamentari.
La stessa identità riformista di Renzi risulta appannata. Nelle elezioni del 2014 Renzi aveva avuto successo come diga contro il populismo, ma nel referendum del 2016 gli ha fatto concorrenza cavalcando i luoghi comuni dell’antipolitica. Ancora nelle ultime settimane ha tentato il blitz delle elezioni anticipate ricercando l’accordo con M5s e Lega. Luca Ricolfi ormai lo cataloga come leader “populista” insieme a Grillo e Salvini. “Insegue il M5s, non lo capisco. Non bisogna combattere i politici, ma cambiare politica” lamenta il senatore Mario Tronti, voce “storica” degli ex comunisti che ancora sostengono Renzi.
Con la rottura del Pd in realtà si crea lo spazio per la richiesta di una nuova leadership della sinistra italiana, non più alla Renzi — tutta “energia e grinta”, sfida e rivincita —, ma con le sembianze più tranquille e accattivanti di un saggio federatore delle varie anime sparse per una ricomposizione unitaria che dia vita a un soggetto nuovamente competitivo per le elezioni del 2018. Un’alternativa di ordine e unità contro un Renzi divisioni e sconfitte che può nascere all’interno o all’esterno del Pd: da Franceschini a Pisapia.
In aggiunta — come suo solito — Renzi fa i conti senza il Quirinale. E’ vero che Mattarella non è un intrigante, ma nemmeno un becchino e cioè un Capo dello Stato-telespettatore che sta a guardare in pantofole il Paese che, di telegiornale in telegiornale, ruzzola verso l’ingovernabilità, sempre più preda dei partiti estremisti, più debole nei rapporti con Bruxelles e irrilevante sulla scena internazionale.