Secondo il Washington Post è stato raggiunto anche l’accordo tra i creditori della casa di Detroit e il Tesoro Usa: 6,9 mld di dollari svalutati a 2 mld. Dopo la ratifica da parte dei sindacati, dovrebbe essere la volta dell’ultimo atto, cioè l’accordo con Torino, che non dovrebbe però arrivare prima di giovedì. «La Fiat – commenta Franco Debenedetti – che prima sembrava destinata ad essere preda, ha ribaltato i giochi. Grande mossa strategica. Marchionne é stato l’uomo giusto nel posto giusto, al momento giusto con il prodotto giusto. Poi, come sempre, una cosa sono le strategie, un’altra la loro implementazione». In mezzo? I costi.
Senatore Debenedetti, l’accordo con i sindacati è stato raggiunto, manca solo quello con le banche. L’alleanza Fiat-Chrysler è in dirittura d’arrivo.
Sì, a questo punto é probabile che l’operazione vada in porto. Come fanno le banche a dire no, quando il governo di Obama è favorevole, i sindacati hanno raggiunto l’accordo e c’è una soluzione industriale che entrambi ritengono credibile?
C’è chi fa notare come lo stato di salute di Fiat non sia ottimale: ha chiuso il primo trimestre in rosso, 411 milioni la perdita del periodo e 48 milioni la gestione ordinaria. Un’azienda che qualche anno fa era a rischio default ora compra Chrysler. Non le viene da pensare che la strategia sia così “perfetta” che Fiat compie l’operazione per salvarsi?
Dipende cosa si intende per salvarsi. Marchionne lo ha detto chiaramente: ci sono troppi costruttori, o l’industria si ristruttura con aggregazioni, oppure non c’è salvezza. E ha indicato la taglia minima: secondo lui si salva solo chi produce almeno 6 milioni di vetture. I conti in rosso, in quest’ottica, non sono ciò che conta: anche perché, chi più chi meno, li hanno tutti. Perfino Audi, un player più piccolo che per la sua tipologia si poteva teoricamente considerare “schermato” rispetto alla congiuntura negativa, denuncia un forte cale degli utili. Con la sua offerta, Marchionne é stato l’uomo giusto nel posto giusto, al momento giusto con il prodotto giusto. E si é guadagnato un testimonial di eccezione: il presidente degli Stati Uniti. La Fiat che prima sembrava destinata ad essere preda, ha ribaltato i giochi. Grande mossa strategica. Poi, come sempre, una cosa sono le strategie, un’altra la loro implementazione.
Vede quindi delle possibili incognite?
I costi per metterla in atto. Costa soldi chiudere stabilimenti, costa soldi trasformarli, adattare prodotti esistenti a regolamentazioni diverse, lanciare prodotti su un nuovo mercato… costa trasferire la tecnologia: quando la Fiat fece Togliattigrad, nell’ex Urss, per trasferire la tecnologia ai russi dovette distogliere risorse che potevano essere dedicate invece a sviluppare nuovi prodotti. E poi costa costituire il capitale circolante per le nuove produzioni. Chi li mette questi soldi?
Il matrimonio con Chrysler invece a Fiat non costerà un dollaro.
Così ha detto Marchionne, che non é uomo da fare marcia indietro. Meno male. Sarà tanto se riuscirà a farsi pagare le fotocopie dei disegni. Quindi non potranno che essere soldi che il governo Usa darà a Chrysler.
Ad un certo punto della trattativa si è affacciata anche l’ipotesi Opel. Se Fiat riuscisse a prendersi anche la casa tedesca, a quel punto i volumi richiesti a Fiat per essere competitiva sul mercato mondiale sarebbero assicurati. Lei come valuta quello che si dice in questi giorni?
Fiat e Chrysler insieme possono fare quattro milioni di vetture. Non è l’obiettivo dichiarato da Marchionne ma intanto fa metà della strada. Mi sembra che la strada Chrysler sia spianata, mentre su quella Opel ci sono ostacoli, quindi viene per seconda. Ma anche Opel, da sola, non ce la fa. Con l’operazione doppia, si raggiungono prima le economie di scala: quella è una somma. Ma bisogna anche trasferire tecnologie, unificare componenti, mettere insieme le logistiche. E per quello fare un’operazione a tre non costa il doppio di farla a due, ma molto di più.
Tra i punti strategici dell’accordo ci sarebbero i nuovi mercati: quello europeo per Chrysler e quello statunitense per Fiat. Entrambi, in poche parole, avrebbero senz’altro da guadagnare.
Già perché le macchine non basta farle, bisogna venderle. Chi le vende è la rete dei dealer, decine di migliaia di persone. E chi le compra sono i clienti americani. Se si fanno macchine più piccole, dovranno essere meno costose, e quindi anche il margine di guadagno é minore. I dealer dovranno cambiare le loro strategie di vendita, ridurre le loro spese. E vendere le 500 e le Punto a chi fino a ieri ha comperato suv e pickup. Non proprio una cosa semplice.
In altre parole, sta dicendo, saranno le preferenze e la convenienza dei consumatori a sancire la bontà dell’accordo.
Certo. Che la Fiat venda un po’ di macchine in Usa, è utile alla Fiat, ma non risolve i problemi della rete di vendita Chrysler. E viceversa per la Chrysler in Italia, dove tra l’altro già vende le sue vetture. Ma entrambe sono nicchie nei rispettivi mercati. Il problema è vendere in Usa milioni di vetture Chrysler diverse da quelle attuali. Invece delle macchine grosse che consumano molto, macchine più piccole che consumano meno. È un cambiamento radicale, che riguarda lo stile di vita del consumatore americano. Vetture più piccole ed ecologiche già ci sono sul mercato americano: perché il grosso degli americani non le comprano? Su questo il governo Usa potrà fare molto: agire con la leva fiscale sui consumi, per esempio, in modo da agevolare l’acquisto di motori a basso consumo. In ogni caso ci vorrà tempo, e Chrysler non ne ha molto.
Una trasformazione innescata dalla grande crisi nella quale ci troviamo…
In effetti può darsi che lo shock tremendo di questa crisi si riveli la discontinuità che modifica in modo rapido le preferenze dei consumatori americani. D’altra parte, è la crisi che ha portato la Fiat a Detroit. Può darsi che sia la crisi a portare i consumatori americani alle vetture con tecnologia Fiat.