I conflitti della fine del secolo scorso, le tensioni tra Hezbollah e Israele, la posizione cauta della Russia nei confronti degli Stati ex Urss: tutti questi fatti ridimensionano il fattore “potenza” specie se rapportata con conflitti asimmetrici. Allo “yes we can” di Barack Obama si oppone una risposta multipolare “anche noi possiamo” degli Stati più deboli. Il progetto occidentale di esportare in tutto il mondo i diritti dell’uomo non decolla. Anzi, il mondo si decentra e l’egemonia degli Stati Uniti e dell’Europa viene contestata e respinta. Si tratta, in definitiva, del decentramento dell’Occidente, con il tramonto dello Stato-nazione e con la confluenza in una società-mondo soggetta agli stessi problemi di sviluppo ambiente, riscaldamento climatico, ecc. È un’altra faccia del processo di “globalizzazione”. Globalizzazione delle aziende, della finanza, della comunicazione, ecc.
Tuttavia, questo processo di mondializzazione non produce unificazione dal momento che circolano merci, titoli finanziari, informazioni attraverso le reti, ma non persone o impieghi. Quindi, il risultato contradditorio della globalizzazione è, da una parte, la riduzione delle diseguaglianze medie tra territori, dall’altra l’aumento delle diseguaglianze interne. Ad esempio, fino agli anni ‘80 del secolo scorso il mondo era ancora diviso tra un miliardo di ricchi, concentrati prevalentemente nei paesi occidentali, e cinque miliardi di poveri, abitanti nel cosiddetto terzo mondo.
Oggi, esemplificando all’estremo, esiste sempre un miliardo di ricchi, ma se ne trovano sempre di più nell’ex terzo mondo. Quattro miliardi di individui vivono in situazioni di acquisizione di benessere, mentre ne rimane un miliardo che sprofonda nella povertà e, di questi vecchi o nuovi poveri, vi è un aumento sensibile nei paesi ricchi.
La globalizzazione favorisce, dunque, il riscatto economico rapido, ma induce anche cadute nell’indigenza; e non unifica il mondo ma lo frammenta. La diseguaglianza così macroscopica ed evidente nel nostro tempo è un dato che risale, all’incirca, al XIX secolo. Secondo Angus Maddison (in “Historical Statistics”), all’inizio della rivoluzione industriale le differenze del Pil per abitante nelle grandi regioni del mondo erano molto deboli; così, la ricchezza media di un africano era solo due volte minore di quella di un europeo occidentale. Nei primi anni del XXI secolo, questa differenza è moltiplicata di oltre tredici volte. Ancora, lo storico Paul Bairoch scrive “non esisteva grande differenza tra i livelli di reddito delle diverse civiltà nel periodo in cui raggiungevano l’apogeo: Roma nel I secolo, l’India nel XVII e l’Europa nel XVII”.
L’aumento delle diseguaglianze mondiali è relativamente nuovo nella scala economico-sociale dell’umanità, ed è la conseguenza dello straordinario arricchimento dei paesi occidentali in oltre due secoli. Da una ventina d’anni sembrerebbe che le diseguaglianze mondiali diminuiscano. Ma si tratta, in parte, di un abbaglio. Ciò che spiega questa evoluzione è la diminuzione delle diseguaglianze internazionali. L’urgenza e la difficoltà in cui oggi ci troviamo attengono al problema di conciliare l’esigenza di giustizia sociale con il bisogno di efficacia economica.
Per raggiungere l’efficacia economica alcuni sono tentati di rinunciare a ogni forma di giustizia e quindi l’ultraliberismo. Altri, in nome della giustizia, rischiano di pregiudicare gravemente l’efficacia economica e quindi la sua propulsione. Purtroppo dobbiamo prendere atto che la remunerazione, il salario, non dipendono dalla morale, ma dal mercato. Ne consegue che la sola possibilità di eliminare la povertà è la creazione di ricchezza.
È stato dimostrato (da Marx-Engels) che i progressi della civiltà derivano dall’egoismo piuttosto che dal disinteresse, poiché l’economia è amorale. In questo nostro tempo le persone più deboli sono i disoccupati e i salariati. E in questo contesto la democrazia e quindi la politica arriva, o dovrebbe arrivare, a compensare gli effetti più ingiusti del mercato, senza nuocere troppo all’efficacia dell’economia. Si tratta, in definitiva, di stabilire un rapporto armonico tra il capitalismo, il mercato e lo Stato.
Da quanto finora si è detto, il dato più importante che si dovrebbe evidenziare e sul quale focalizzarsi è la povertà. La povertà che oscilla tra paura e speranza. Paura di cadervi o di non uscirne e speranza di vincerla. E quindi che fare, se non adottare una politica della speranza? Secondo l’antropologo indiano Arjun Appadurai, “per arrivarci dobbiamo comprendere come si passa dalla miseria all’ira e cioè alla ribellione. L’umiliazione è un vettore, ma non il solo”. Altri vettori, altre forme di sofferenza o di esclusione creano un legame tra la geografia della miseria e quella dell’ira, della ribellione.
Bisogna identificare questi luoghi, comprenderli e recuperarli e fonderli in modo armonico con lo sviluppo, la politica e l’economia. L’attesa e l’affidarsi alla sola mano invisibile del mercato può essere rischiosa. Il rischio è un’affermazione della plutocrazia e, conseguentemente, una successiva deriva populista alimentata dalla paura della povertà, dalla ribellione. Questa dovrebbe essere anche la nostra politica della speranza, la nostra missione e la nostra etica; secondo quanto indicato da Papa Francesco, infatti, «oggi dobbiamo anche dire “non rubare” a quell’economia che crea esclusione e diseguaglianza».