Ferdinando Giugliano – al suo esordio come sulla prima pagina di Repubblica, nella squadra del direttore designato Mario Calabresi – ha voluto cimentarsi subito sulle quattro risoluzioni bancarie che da un mese monopolizzano la cronaca e il dibattito. Un tema challenging, sfidante direbbero nella City: hot stuff, materia bollente e melmosa, verticale dal Quirinale all’ultimo obbligazionista tradito, istituzionalmente intricato, politicamente trasversale, capace di scuotere le cancellerie di un continente.
Il collega ha una trentina d’anni, è italiano ma ha studiato a Oxford e ha maturato la sua esperienza giornalistica quasi esclusivamente al Financial Times. Fin dal titolo (“Quattro errori sulle banche italiane”) non sembra far molto per sfuggire al cliché dell’osservatore anglosassone, “apolide” di cose italiane. Lo fa con con garbo decisamente maggiore rispetto al suo ex collega Wolfgang Munchau, che non perde occasione di rammentare ai suoi connazionali tedeschi l’inesorabilità della loro dannazione storica. Ma se il periodare del neo-editorialista di Repubblica è più piano e fair, quella che analizza e commenta resta un’Italia che ha sempre torto e sempre per colpa sua.
Le risoluzioni bancarie, dice, sono state un guaio ben maggiore di quanto dicano le cifre: come non dargli ragione? “Il provvedimento va a toccare il risparmio privato, uno dei pilastri forti della malmessa economia italiana e un vero tabù per l’elettorato. Il coinvolgimento degli investitori scoperchia i rischi che un sistema del credito vulnerabile presenta per i cittadini, minandone la fiducia verso le banche e i regolatori. Infine, lo scontro tra il governo di Matteo Renzi e la Commissione europea sulla responsabilità delle misure contribuisce ad alimentare quel senso di perdita di sovranità che da anni spinge l’elettorato nelle braccia dei partiti euroscettici”.
Non per questo Giugliano dà del tutto torto al governo: “Il paradosso è che il decreto appare nelle sue linee guida come un ragionevole compromesso fra tre vincoli: la dura realtà della finanza pubblica italiana; le nuove regole concordate con Bruxelles per limitare la socializzazione delle perdite bancarie; e le ragioni della politica che deve, ove possibile, tenere conto dell’impatto di misure drastiche anche su alcune minoranze, in questo caso gli obbligazionisti ordinari, salvati da risorse provenienti da altre banche e grazie a una garanzia della Cassa Depositi e Prestiti”. Se è per questo a Renzi sul sussidiario abbiamo attribuito “errori” più radicali e gravi.
Sul fronte di Bruxelles non è certamente scorretto notare (lo abbiamo fatto anche sul sussidiario alcuni giorni fa) che l’utilizzo del Fondo interbancario di garanzia dei depositi come veicolo-finanziatore delle risoluzioni presentava profili di anomalia. Ma l’articolo dimentica che la Commissione Ue non ha contestato questo, ma il presunto “aiuto pubblico” nell’intervento del Fitd. E su questo punto neppure dal collega di Repubblica giungono argomenti più sostanziali della constatazione lapalissiana di Francesco Giavazzi sul Corriere della Sera: se la Germania dal 2008 in poi ha potuto dispiegare imponenti aiuti pubblici per salvare le banche semiaffondate dal crollo di Wall Street è stato banalmente perché allora il bail in non c’era.
L’esito fattuale è comunque che Berlino ha potuto e tuttora può sostenere molte Landesbanken che, invece di far credito alle imprese tedesche, avevano scommesso a Wall Street con garanzia statale. E se Berlino è tuttora azionista al 25% di Commerzbank (e Londra ha ancora il controllo assoluto di Royal Bank of Scotland) Roma non può neppure prestare una semplice garanzia della Cassa depositi e prestiti per una bad bank: un’operazione-pulizia non di investimenti moral-hazarded in derivati, ma di sofferenze creditizie prodotte dalla recessione. Un durissimo ciclo negativo a sua volta indotto da misure di austerity imposte dall’esterno sotto opaco attacco speculativo; misure discutibili nelle motivazioni, nell’elaborazione, nell’enforcement e soprattutto nei risultati. Piacerebbe parlarne: con toni da seminario oxoniense, ma parlarne. E anche di altro, in fatto di regole: che i commentatori di mercato considerano sempre date, mentre al tavolo della regulation conta come e da chi le carte sono date. Il ché fa certamente parte del gioco e quindi non può restare fuori di una fair opinion sul gioco.
La Deutsche Bank ha cancellato qualche settimana fa sei miliardi di derivati. Il valore di quei titoli era zero fin dal 2008 eppure mai nessun stress test ha mai bocciato la Deutsche com’è accaduto invece a raffica alle banche italiane: UniCredit ha dovuto ricapitalizzare tre volte, ma lo ha sempre fatto sul mercato; e lo ha fatto anche Mps, peraltro pecora nera esemplare dell’assessment che un anno fa ha dato il via all’Unione bancaria. La differenza fra una banca italiana e la Deutsche – soprattutto nel primo stress test Eba del 2011 – è sempre stata che titoli di Stato italiani in portafoglio alle prime sono stati contabilizzati a fair value con lo spread a 575, mentre i derivati illiquidi della Deutsche – cosiddetti level 3 nella griglia degli standard Ias-Ifrs – sono stati sistematicamente esclusi dalle valutazioni di rischio. Un mutuo di una Popolare italiana per l’acquisto di una casa dietro la filiale è sempre stato giudicato più rischioso di un derivato su un pacco di mutui subprime concessi ai quattro angoli degli States e comprati dalla Deutsche.
È “populista” ed “euroscettico” sollevare questi argomenti? Peraltro non lo fanno neppure più i tribuni piazzaioli, “extraparlamentari”: lo fa (l’ultima volta ieri nella conferenza stampa di fine anno) il capo del governo sostenuto da un centrosinistra graniticamente europeista. E lo fanno i banchieri non meno dei risparmiatori “traditi”.
Le authority di vigilanza italiane – Bankitalia e Consob – non sono immuni da responsabilità, ammette l’articolo di Repubblica. Che tuttavia sfocia in una raccomandazione paradossale: “Prima ancora di possibili inchieste parlamentari, che ove venissero avviate dovranno comunque essere attente a salvaguardare questo importante principio, gli organi di vigilanza dovrebbero avviare delle indagini interne per accertare eventuali colpe o negligenze. La guida dell’esercizio potrebbe essere affidata a un esperto straniero, meglio se proveniente da un paese al di fuori della zona euro, in modo da limitare il rischio di conflitti d’interesse”.
Interpretazione davvero singolare di una democrazia seria e trasparente sul giornale fondato da Eugenio Scalfari e diretto – fino al prossimo 14 gennaio – da Ezio Mauro. Altri paesi europei sono finiti stati commissariati, ma almeno da una troika di istituzioni sovrannazionali. Per l’Italia un demiurgo senza volto e senza nome, una sorta di Commendatore mozartiano per un paese che mai “si pente” abbastanza?
In Italia, peraltro, un “Papa straniero” in banca l’abbiamo già sperimentato: è stato Mario Draghi, governatore della Banca d’Italia (e capo della vigilanza bancaria nazionale) dal 2006 al 2011; presidente del Financial Stability Board, padre di “Basilea 3”, presidente della Bce e dell’Unione bancaria che ha assegnato a Francoforte anche la supervisione bancaria nell’eurozona. È arrivato in Via Nazionale, Draghi, dalla Goldman Sachs di Londra per sostituire Antonio Fazio: cacciato da Bankitalia, right or wrong, e poi condannato in terzo grado, per aver vigilato male su banche, risparmio, obbligazioni mal collocate e quant’altro. Draghi è stato chiamato dall’estero a furor di popolo con una missione: mai più “errori” in banca e attorno in Italia. Invece appena due anni – senza che la Vigilanza “di mercato” battesse ciglio – Mps ha ricomprato AntonVeneta dalla maxi-opa lanciata su Abn Amro da Royal Bank of Scotland, Santander e Fortis. Nel 2008 Abn è fallita, Rbs è fallita ed è stata nazionalizzata, Fortis è fallita ed è stata fatta a pezzi. Santander si è salvato rifilando a un prezzo incomprensibile Antonveneta a Mps: virtualmente fallito.
Dieci anni dopo Giugliano sbarca da Londra a dire agli italiani che continuano a commettere “errori”: che sbagliano le loro banche e le autorità che dovrebbero evitare alle banche di sbagliare. E finisce per sbagliare anche Renzi costretto a ridursi come uno Tsipras. Può darsi. Parliamone: se a Oxford è considerato disdicevole farlo ai Comuni, almeno facciamolo fra giornalisti italiani. A dire ai banchieri italiani, convocati come scolaretti a Milano, che commettono sempre errori imperdonabili ed è colpa loro ci ha già pensato il capo della vigilanza Bce, Danièle Nouy, due giorni dopo le risoluzioni di Banca Etruria & C. Pare peraltro che Draghi sia convinto che, stavolta, un po’ in errore sia la Nouy – formalmente sua sottoposta – a pretendere di inasprire ancora i requisti patrimoniali alle banche italiane. Chissà. Può darsi: perché non ne parliamo? O aspettiamo l’Esperto Estero, meglio se inviato da Washington?