Petrolio in lieve rialzo ieri (ma sempre sui minimi di sei anni fa), dopo che martedì era proseguito il drammatico crollo del prezzo a seguito della conferma giunta dall’Opec che i paesi produttori consociati non intendono cambiare la loro strategia di produzione, ovvero non si taglia l’offerta. Il Wti statunitense con consegna febbraio è sceso sotto i 45 dollari al barile per la prima volta dall’aprile 2009, mentre i futures sul Brent hanno perso il 3% arrivando a trattare a 45,94 dollari al barile, salvo risalire ieri sopra quota 46,70: per entrambe le tipologie, stiamo parlando di un calo di circa il 60% da metà giugno scorso e per la prima volta dal 2013 martedì lo spread Wti-Brent è passato brevemente in positivo grazie al rimbalzo del primo, un differenziale che ricorda i tempi pre-Qe, quando il range di oscillazione tra i due era più limitato e sintomo che il mercato non solo sta ancora cercando un floor alla caduta, ma forse anche il riagganciamento a dinamiche macro credibili e non distorte.
Parlando a margine di una conferenza sull’energia ad Abu Dhabi, il ministro del Petrolio degli Emirati arabi, Suhail bin Mohammed al-Mazroui, è stato categorico: «La strategia (dell’Opec, ndr) non cambierà», salvo poi richiamare tutti alla razionalità e scommettendo sul fatto che non ci sarà un rimbalzo immediato, nonostante il livello attuale troppo basso e non giustificato, «poiché ci vorranno due o tre anni per una potenziale stabilizzazione dei prezzi». Spazzando dal tavolo l’ipotesi di un meeting d’emergenza dell’Opec prima di quello già fissato per giugno, il ministro ha attaccato i produttori di shale oil statunitensi imputando loro una sovra-offerta: «Chiaramente c’è in atto una guerra dei prezzi», ha dichiarato Nitesh Shah, analista alla Etf Securities.
Per molti osservatori, i Paesi del Golfo e gli Usa stanno giocando una partita pericolosa finalizzata a scoprire quale tra i blocchi produttori è maggiormente in grado di assorbire il calo dei prezzi e non tagliare la produzione: per Shah, «l’Opec taglierà solo dopo che lo avranno fatto gli Usa o quando questi dimostreranno la volontà di tagliare la produzione simultaneamente. È molto difficile per i prezzi del petrolio rimanere sostenibili a questi livelli, ma ora è entrata in gioco la componente politica: ovvero, chi riesce a resistere più a lungo?». E se Iran e Venezuela continuano a chiedere ai loro partner nell’Opec di rivedere la decisione di non tagliare la produzione, c’è chi si avvantaggia dei prezzi bassissimi di questo periodo: la Cina, il cui import di greggio è salito di 5 milioni di barili a dicembre, il massimo di sempre con un aumento del 19,5% su base mensile e del 13,4% su base annuale.
Ma se questo potrebbe avere a che fare con la volontà di riempire a prezzi di saldo le riserve strategiche, in assenza di questa domanda artificiale promanano già dei problemi per un mercato in ultra-offerta e saltano fuori un paio di variabili che finora non si erano forse scontate. La prima ci fa tornare alle parole di Suhail bin Mohammed al-Mazroui quando chiedeva ai paesi produttori non-Opec di «tagliare la loro produzione irresponsabile»: quindi, la rivoluzione Usa dello shale oil sarebbe irresponsabile? Beh, guardando questo grafico, forse all’Opec tutti i torti non li hanno, al netto del loro ormai insopportabile e vetusto oligopolio. La produzione di crude negli Usa è salita del 75% negli ultimi 5 anni, mentre quella dell’Opec solo del 5%: stando a dati dell’Energy Intelligence Group, il Canada ha aumentato l’offerta del 42% e il Brasile ha pompato il 24% in più.
Per Kang Yoo Jin, analista commodities alla Hn Investment and Securities di Seul non c’è dubbio, «il principale contributore alla saturazione del mercato è stato l’aumento della produzione negli Usa, la quale ha portato al rialzo l’offerta a livello globale. I produttori dell’Opec non possono chiamarsi completamente fuori dalle responsabilità per la situazione, però, visto che sono stati loro a far entrare nel mercato i produttori Usa di shale oil, limitando la produzione e tenendo il petrolio a 100 dollari al barile». Ciò che è molto interessante, però, è che l’inflection point per la produzione Usa è arrivato proprio quando la Fed si è imbarcata nella sua operazione di fornitura illimitata di denaro a costo pressoché zero, rendendo il prezzo del finanziamento non più una variabile cui tener conto e facendo esplodere la bolla all’interno di quello che è un non-ciclo economico: insomma, per dirla con la Scuola austriaca di economia, l’ennesimo mal-investment generato dalle Banche centrali di cui oggi si scontano gli effetti. La seconda variabile, invece, ha direttamente a che fare con una pratica speculativa che sta prendendo sempre più piede e che presuppone la consegna fisica del bene e non l’utilizzo di petrolio di carta per guadagnare sui margini.
Ma prima, un altro passo. A riaccendere il nervosismo sul mercato petrolifero ha contribuito lunedì, oltre al taglio delle previsioni sui prezzi operato da Goldman Sachs, anche il fatto che gli impianti di trivellazione attivi negli Usa sono ormai il faro principale dei mercati petroliferi e che, stando alle statistiche di Backer Hughes,?Oltreoceano i “drilling rigs” sono scesi di 61 unità questa settimana, la frenata più netta dal 1991, riducendosi a 1.421 contro un record di 1.609 a metà ottobre, come ci mostra il grafico a fondo pagina.
Ma come anticipavo prima, il petrolio ai minimi attuali sta riportando il mercato nelle condizioni ideali per ricominciare un accumulo di scorte a fini speculativi, simile a quello che si verificò nel 2009. Il contango, ossia lo sconto del greggio per consegna immediata rispetto a quello a futuri, si è infatti ampliato a livelli sufficienti a garantire un profitto sicuro semplicemente “conservando” i barili per qualche mese:?il Brent per agosto costa oltre 6,5 dollari in più rispetto a quello per febbraio, abbastanza da coprire i costi di stoccaggio secondo gli analisti. Per la prima volta dal 2009, inoltre, non è solo il greggio a essere in contango ma tutto il comparto petrolifero, compresi i carburanti:?una situazione che potrebbe accrescere ulteriormente le scorte di benzina, diesel e altri prodotti raffinati, che nel maggior terminal europeo, quello di Amsterdam-Rotterdam-Anversa (Ara), sono già ai massimi da tre anni e mezzo, per effetto dei consumi bassi e dei margini di raffinazione finalmente appetibili.
Gli armatori stanno già assistendo a una corsa per accaparrarsi petroliere da trasformare in stoccaggi galleggianti: stando a valutazioni della società greca Dynacom Tankers, sul mercato attualmente ci sono richieste per almeno 20 milioni di barili di capacità, mentre fonti Reuters rivelano che proprio in questi giorni diverse società, tra cui Vitol, Trafigura e Shell, hanno sottoscritto contratti di 12 mesi, con opzione di stoccaggio per petroliere di grandi o addirittura grandissime dimensioni, come le Ultra Large Crude Carriers, capaci di trasportare oltre 3 milioni di barili di greggio. Accontentandosi di navi vecchie avrebbero strappato noli di favore:?meno di 40mila dollari al giorno per una Vlcc (Very Large Crude Carrier) contro i circa 100mila tuttora richiesti sul mercato spot.
La speculazione nel 2009 venne praticata in modo tanto diffuso che a un certo punto arrivarono a esserci oltre 100 milioni di barili di greggio “parcheggiati” in mare, più di quanto il mondo intero ne consumi in un giorno. Si rivelò anche molto redditizia:?le 5 maggiori società di trading di petrolio fecero profitti record quell’anno e per alcune major, come Bp, l’attività fornì un sostegno non indifferente al bilancio, ma, memore dell’accaduto, l’Agenzia internazionale per l’energia (Aie) già un mese fa ha comunque avvertito che nel primo semestre 2015 le scorte petrolifere potrebbero aumentare di 300 milioni di barili, mettendo a dura prova la capacità di stoccaggio a terra. Ma ci sono, probabilmente, anche altre strategie in atto.
Una è sicuramente quella meramente finanziaria, ovvero operare su opzioni o titoli correlati al comparto. E infatti i traders cominciano a sentire l’odore del sangue e si lanciano in operazioni short sui titoli delle aziende del settore energetico, tanto che gli ultimi dati disponibili parlano di forti movimenti contro questi soggetti. In particolare, le ditte legate a esplorazione e produzione hanno visto lo short interest salire del 12% in aggregato nelle ultime due settimane del 2014, stando a dati del New York Stock Exchange: tanto per chiarezza, si parla di short selling quando un trader prende a prestito un titolo, lo vende a una terza parte e lo ricompra più tardi nella speranza di monetizzare il calo di valore dell’azione. Tra i titoli più sotto pressione ci sono Oasis Petroleum con un incremento di posizioni short del 45,9%, Pioneer Natural Research con una crescita del 45,2% e Chesapeake Energy che “vanta” un interesse al ribasso salito del 31,9%: la cosa non deve stupire, visto che da un lato il calo del prezzo non sembra ancora aver trovato un bottom, un punto finale da cui poi risalire e dall’altro nello stesso periodo di tempo che ha visto così attivi gli short sellers i titoli energetici hanno perso il 12,6% allo Standard&Poor’s 500, mentre l’indice Spdr Oil and Gas Esploration, un Etf, ha vissuto un calo dell’8,9% e tra le top holding del fondo ci sono pezzi da novanta come Laredo Petroleum ed Ep Energy.
Ma attenzione, perché a volte movimenti così violenti nell’ambito della speculazione al ribasso possono anche essere i cosiddetti indicatori contrarian all’acquisto, ovvero il fatto che ci sia fibrillazione sull’altro lato del trade può indicare per qualcuno il fatto che il cambiamento del corso attuale stia arrivando. Non la pensa così Tim Rezvan, analista per il settore energetico alla Sterne Agee, a detta del quale chi shorta lo sta facendo con ragione, almeno per quanto riguarda un arco temporale prevedibile: «Potremmo vedere il crude rompere al ribasso quota 40 dollari e potrebbe non essere sorprendente il fatto che accada nel breve termine. Finché non vedremo qualche sintomo di sollievo e le parti in causa, ovvero i produttori, non compiranno mosse sensate, prepariamoci a soffrire ancora», ha dichiarato.
C’è poi un terzo tipo di strategia in atto, in questo caso tutta statunitense e tutta riconducibile al concetto di “State within a State”, ovvero una situazione politica relativa a una nazione in cui un organo interno, il cosiddetto “Deep State”, come ad esempio le Forze armate, i Servizi segreti o la polizia, non rispondono più a una leadership civile. A volte, però, il termine “Deep State” si riferisce anche a compagnie a controllo statale, che quindi dovrebbero rispondere al governo, che invece operano de facto come compagnie private, oppure ancora compagnie formalmente private che operano però come Stati nello Stato. Bene, come sta operando il “Deep State” relativamente alla questione petrolifera? Esistendo per mantenere le infrastrutture essenziali del potere globale e della stabilità interna, questo non può che operare a tutela del comparto dello shale oil, quindi contrariamente al pensiero comune, un calo repentino della produzione statunitense e un corrispondente aumento dell’import di petrolio è uno sviluppo positivo.
Perché? Semplice e basato sul concetto dell’autarchia sui fondamentali, ovvero uno Stato che riesce a produrre da solo energia e cibo offre maggior sicurezza di uno che dipende dagli altri per l’approvvigionamento di questi beni. Quindi, visto che per una serie di ragioni (instabilità geopolitica, aumento dei consumi interni nelle nazioni esportatrici, contrazione del capitale a disposizione per rimpiazzare la produzione in calo) il cosiddetto “cheap oil”, il petrolio a basso costo, è destinato a diventare scarso, per il “Deep State” è un’eccellente strategia quella di consumare il petrolio di chiunque voglia venderlo a 40-50 dollari al barile e mantenere intatte le proprie riserve quando sarà quota 100 dollari a diventare di nuovo “cheap”.
Ci sono quindi almeno due ragioni per cui il “Deep State” statunitense sia paradossalmente a favore della strategia saudita di forzare un taglio della produzione verso i suoi rivali: primo, la perdita di introito per i rivali/nemici è una forma molto a buon mercato di warfare finanziario che indebolisce la loro abilità di mantenere forze armate e prestazioni di welfare state, attualmente garantite dagli introiti dell’export di petrolio. Quindi, sono più facilmente destabilizzabili. Secondo, l’opportunità di consumare il petrolio a buon mercato di qualcun’altro lascia le riserve Usa al sicuro e pronte all’utilizzo e alla vendita in tempi futuri e a prezzi maggiori, data la maggiore richiesta.
E ricordatevi che per quanto i governi eletti dicano sempre di essere la formica che guida l’elefante del “Deep State”, questo non è quasi mai vero: tanto più che quest’ultimo non è un monolite ma un dinamico network di nodi di potere, i cosiddetti “corpi intermedi”, con una loro agenda precisa.
P.S.: Ieri la Corte di giustizia europea ha dato il via libera al piano Omt (Outright monetary transaction) della Bce, lanciato per contrastare la crisi degli spread nell’agosto del 2012 e che prevede l’acquisto di titoli di Stato a breve per i paesi in crisi conclamata. Insomma, per la Corte l’Omt è compatibile con il Trattato europeo. Il piano, ha sottolineato l’avvocato generale della Corte, Pedro Cruz Villalon, è dunque “legale” perché è in linea con i trattati Ue, è altresì «necessario e proporzionato» poiché la Bce non si è assunta un rischio che la renderebbe vulnerabile all’insolvenza. Tuttavia, «alcune condizioni devono essere rispettate». L’Eurotower deve infatti spiegare in modo «chiaro e preciso» le ragioni di una strategia di politica monetaria non convenzionale come questa e inoltre non deve fornire «un’assistenza finanziaria diretta» al Paese specifico di cui acquista i bond.
Come vi dicevo martedì, quello di ieri è un parere non vincolante, ma fornisce le linee guida sulla decisione finale attesa tra 4-6 mesi e risulta di forte impatto in vista della decisione della Bce su un eventuale Quantitative easing. Attendiamoci, a ridosso del Consiglio direttivo del 22, la risposta tedesca a questo via libera de facto.