C’è qualcosa nell’aria di questo autunno-inverno 2009 che possa far presagire una riedizione di tutto il peggio visto nell’anno1992? Chissà. Intanto rinfreschiamoci la memoria.
Il 1992 è l’anno in cui, grazie a Tangentopoli che scoppia il 31 marzo con l’arresto del “mariuolo” socialista Mario Chiesa, finisce virtualmente la Prima Repubblica. L’avvenimento simbolico che anticipa la disfatta del ‘93 – allorché un parlamento assediato dalle inchieste si scioglie e si consegna alla “supplenza” della magistratura (non prima di aver cancellato dalla Costituzione l’articolo 68 sull’immunità parlamentare) – è il venir meno dell’accordo Dc-Psi che avrebbe potuto portare alla presidenza della Repubblica Giulio Andreotti.
Occhio alla sequenza degli avvenimenti. Il 1992 è l’anno dell’inizio di Tangentopoli. Ma anche l’anno dell’omicidio del capo degli andreottiani in Sicilia Salvo Lima (12 marzo), della strage di Capaci (23 maggio) e delle ultime elezioni politiche di Prima Repubblica con sistema proporzionale (5-6 aprile, in seguito, con l’introduzione del maggioritario via referendum Segni, e con l’abolizione delle preferenze, il parlamento sarà composto da un personale politico sostanzialmente cooptato dai vertici di partito).
Ancora. Il 1992 è l’anno dell’elezione a presidente della Repubblica di Oscar Luigi Scalfaro (25 maggio, al 16° scrutinio, due giorni dopo l’omicidio del giudice Falcone), della strage di Via d’Amelio (19 luglio), della chiusura più che “irrituale” dell’inchiesta “Mafia e appalti” (inchiesta allora avviata dai vertici dei Ros oggi imputati a Palermo, definita “una bomba” dall’insospettabile Peter Gomez sul Fatto del 23 ottobre 2009, ma archiviata dai pm antimafia – gli stessi che oggi credono al “collaborante” Spatuzza dopo aver creduto per quasi un ventennio al pentito Scarantino – il 20 luglio 1992, il giorno dopo l’omicidio Borsellino).
Infine, contrariamente a ciò che sarebbe stato prevedibile all’indomani della caduta del Muro di Berlino, il 1992 è anche l’anno che segna l’inizio della fine, non del Partito comunista (poi Pds, Ds e ora almeno in parte Pd di Bersani), ma della Dc e del Psi, ridotti rispettivamente ai popolari di Mino Martinazzoli e ai socialisti di Giuliano Amato come appendici dell’Ulivo prima e dell’Unione poi.
Dunque, perché diciamo che c’è qualcosa nell’aria che ci ricorda quegli anni? Primo perché oggi come allora, a quindici anni dalle prime inchieste contro l’uomo di Arcore che irruppe come imprevisto nella “rivoluzione” che aveva cancellato una e una sola parte dello scacchiere politico italiano, la magistratura è ancora lì a svolgere un ruolo di supplenza rispetto un’opposizione incapace di proposizione politica. Secondo, perché oggi come allora anche da parte di alte cariche dello Stato si intravvedono movimenti disgregativi nei confronti dell’attuale baricentro della politica italiana.
Nell’editoriale del 12/10/1991, n. 41. Il Sabato scriveva: «Si può davvero fare a meno della Dc? Questo sta diventando il tema centrale. La ventata è stata improvvisa, visto che fino a poco fa si parlava ancora di “eternità” democristiana. Ma ci sono alcuni segnali sicuri. Ad esempio uno che si dice molto esperto nell’annusare l’aria come Giorgio Bocca ha profetizzato sulle colonne dell’Unità la possibilità di una sconfitta dc, la “cacciata dei democristiani”. E Bocca è in buona compagnia.
Dai massmedia si sono infittite le accuse, le richieste di processo politico, gli ultimatum. Norberto Bobbio – colui che Del Noce definì “la coscienza morale dell’Italia d’oggi”, designato a questo dalla massoneria – ha addirittura richiamato la necessità di un “processo alla Dc”, strumentalizzando in modo discutibile la memoria di Pier Paolo Pasolini. Licio Gelli sostiene che “nella Dc, oggi, il fattore cristiano è usurpato e umiliato. La Dc non è più affidabile come partito guida della nazione, né come portatore dei valori cristiani”. Siamo all’assedio, all’accerchiamento?
Nella situazione attuale, dietro le critiche di Bobbio e Gelli c’è l’idea, più volte ribadita, che la Dc non va cancellata per cambiare il sistema, come si poteva immaginare nel ‘75, ma che può essere ridotta, sgonfiata, limitata al partito degli "onesti", dei Segni e dei Martinazzoli».
È esattamente quello che accadde in seguito con Tangentopoli: Martinazzoli divenne il segretario di quel preteso “resto di Israele” di democristiani “onesti” che fu il Partito popolare e poi, sull’onda di Mani Pulite, si alleò con i postcomunisti per costituire l’Ulivo di Romano Prodi. Sostituite la sigla dell’attuale partito di maggioranza con la Dc e chiedetevi chi sono i Bobbio, i Gelli e i Martinazzoli di oggi.
Una risposta, per quanto sibillina, c’è già. È implicita in una profezia contenuta nel libro che, per sua stessa ammissione, Francesco Rutelli ha tenuto fermo in tipografia e ha fatto uscire in libreria solo a ridosso delle primarie del Pd, quando l’ex sindaco di Roma non aveva ancora esibito la propria curiosità intellettuale per Pierferdinando Casini e l’evoluzione politica del presidente della Camera.
«Per cambiare, prima che sia troppo tardi – scrive Rutelli – si dovrebbe formare un governo del Presidente, con larga base parlamentare, l’interruzione dei conflitti sempre più distruttivi, un programma ambizioso per tre anni, per poi riportare gli orologi, nel 2013, all’appuntamento con una competizione tra due schieramenti alternativi. Basati su alleanze di nuovo conio».
Si capisce che questo “governo presidenziale” si dovrebbe formare nel 2010. Una proposizione bislacca, visto l’ampia maggioranza di cui gode il governo Berlusconi in Parlamento? Forse. Ma intanto la risposta che l’ex sindaco di Roma propone nell’ultima riga del suo libro “La svolta” sembra sicura di sé e indifferente a quell’elementare quesito: «Fantasia? Vedremo».