Potere della paura: è proprio vero che in una crisi sistemica come questa ci si abitua a tutto pur di riuscire a esorcizzare la realtà e farla divenire meno spaventosa. Anche al fatto, ad esempio, che la più grande casa automobilistica americana – General Motors – sia di fatto posseduta al 61% dallo Stato, che entri in una procedura fallimentare gravata da poco meno di 100 miliardi di dollari di debiti e ne emerga con soli 16 miliardi – di cui 6,7 nei confronti dello Stato -, che perda 1,2 miliardi nel terzo trimestre e che abbia anche il coraggio di affermare che le cose, comunque, vanno meglio.
Contenti loro. D’altronde, quando si sentono affermazione come queste – «I mercati finanziari vanno monitorati ma al momento non ci sono rischi di bolle speculative» – fatte dal presidente della Fed di San Francisco, Janet Yellen, resta ben poco da dire. È vero, non c’è il rischio di una bolla: c’è il rischio di più bolle assieme.
Quella della liquidità, degli assets, delle commodities. E, quella, dei mancati pagamenti sui mutui. Che ieri, negli Usa, ha toccato un altro record: quasi il 7% di tutti i prestiti erogati Oltreoceano è in ritardo sui pagamenti di almeno 60 giorni, ovvero la soglia psicologica oltre la quale si entra nella spirale delle insolvenze. Un aumento del 60% rispetto a un anno fa.
I dati sono da paese africano ma arrivano dagli Stati Uniti, dalla main street della più grande potenza mondiale: 15% in Nevada dal 7,7% dello scorso anno; 13% in Florida dal 7,7%; 10% in Arizona dal 5% e il 10,2% in California dal 5% dell’anno precedente. Unica pecora bianca del paese, il Nord Dakota: per il resto, uno stillicidio.
Dal massimo dell’esposizione per gli istituti bancari che è registrata nel District of Columbia al minimo toccato in West Virginia, il destino pare unico: la gente non ce la fa più a pagare rate che fino a un anno fa incidevano certamente sul bilancio familiare ma non tanto da arrivare ad acquisti razionati, insolvenza e default sulla carta di credito.
Questa è l’America oggi, al netto delle idiozie raccontate da Michael Moore – uno che si fa pagare per essere intervistato – nel suo ultimo film “Capitalism – A love story”. Ma oggi non voglio parlare io, l’ho fatto già troppo in queste righe. Parlerà Dennis Gartman, fondatore della “Gartman Letter” e vero guru dei mercati Usa, secondo cui «siamo nel pieno di una bolla aurea, l’oro continuerà a salire in maniera immotivata come fatto finora e prepariamoci a record che avremmo creduto impossibili. È una bolla che come tale non avrà rallentamenti o fasi di attestazione, salirà – anche di poco fino a quando sarà esaurita del tutto e quindi scoppierà».
Insomma, se potete permettervi di operare con l’oro a 1.130 dollari l’oncia sui mercati, c’è ancora spazio di manovra. Poco, rispetto al grosso rally ma c’è. Di più, per Gartman il “minimo” di 1.102 toccato venerdì scorso è di fatto un floor strategico, ovvero un minimo dal quale non si scenderà più per un po’ nonostante le fluttuazioni: qualche mese fa il floor viaggiava a quota 700 dollari l’oncia.
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Colpa del dollaro, «ancora debole e purtroppo destinato a restare tale per un po’. Ormai siamo alla correlazione tra valuta nazionale bassa ed euforia dei mercato, il tutto grazie alla ricetta magica della crisi, ovvero l’ingrediente segreto chiamato liquidità». Ma su cosa fare, quindi, per mettere al riparo il capitale dall’esplosione della bolla e avere un buon ritorno Gartman non ha dubbi, lui ha piazzato scommesse su due valute: «Canada e Australia, con le loro monete, sono il posto in cui occorre essere in questo momento. Entrambi i paesi hanno alzato o stanno per alzare i tassi di interesse e questo rappresenta un indicatore di affidabilità. Partendo dal presupposto che, come ho già detto, il dollaro resterà ancora debole per un po’».
Le Borse, poi, non avranno vita a breve: «Il rally attuale è dettato da una sovrabbondanza di liquidità, poiché i dati macroeconomici reali sono terribili in alcuni casi. Ma quella liquidità, autoalimentata, è destinata a finire entro la primavera: i governi non possono continuare a stampare moneta dal nulla, stanno entrando in una spirale di debito pubblico troppo pericolosa e il deficit federale e commerciale Usa comincia a preoccupare veramente. A quel punto addio rally, si tornerà a valori nominali reali, a indici che non schizzano verso i record in periodi di vacche magre: ci sarà un riposizionamento e un’inversione pesante, alcuni valori di capitalizzazione faranno la fine delle bolle in atto in questo momento: semplicemente scoppieranno».
Ieri, il governatore della Bce, Jean-Claude Trichet, ha dichiarato che «un dollaro forte non è solo nell’interesse degli Stati Uniti ma di tutta la comunità internazionale». Vero, occhio però alle correzioni della prossima primavera: se, come pare, il biglietto verde si riapprezzerà di un 20%, gli scossoni saranno notevoli. Soprattutto in tempi di vacche magre, per dirla con Gartman.