La forma di governo è un aspetto tanto centrale, quanto delicato, del funzionamento delle istituzioni. Essa traduce, secondo una classica definizione, il rapporto che si instaura tra gli organi di vertice di un sistema; in particolare, nel nostro caso, tra Parlamento, Governo e Capo dello Stato.
Uno degli elementi che maggiormente qualifica la forma di governo è rappresentato dal modo in cui si forma il nuovo Esecutivo, e sul punto la Costituzione italiana ci consegna un disegno a maglie piuttosto larghe, che non a caso è stato riempito in virtù dei comportamenti degli attori istituzionali, in primo luogo il Presidente della Repubblica attraverso la prassi delle consultazioni.
Leggendo l’art. 92 della Carta troviamo semplicemente che il Presidente della Repubblica nomina il Presidente del Consiglio dei ministri e, su proposta di questo, i ministri. A ciò segue il giuramento (art. 93). Ma, entro dieci giorni dalla formazione, il Governo deve presentarsi alle Camere per ottenerne la fiducia (art. 94).
Pur nell’essenzialità del disegno, non sfugge come la nascita del nuovo Esecutivo si snodi, naturalmente senza dover essere equidistante, tra un polo “presidenziale” e un polo “parlamentare”. Nella storia repubblicana il punto di equilibrio non si è collocato sempre alla stessa distanza, anche perché lo spazio di manovra del Presidente della Repubblica è mutevole, dipendendo dal quadro politico e dunque da molti fattori. Sovente si è osservato che questo spazio può venire modulato in maniera significativa a causa, per esempio, del sistema elettorale, così come della maggiore o minore vicinanza alla manifestazione di volontà degli elettori.
In verità, queste variabili stanno agendo anche nella situazione che attraversiamo, ma in essa sembra essersi inserito pure qualcos’altro.
E non intendo soffermarmi sulla stipulazione del “contratto”, che pure è un fatto nuovo, almeno in questi termini, nel nostro paese.
Mi riferisco all’obiettivo di fondo che deve muovere gli attori politici (i partiti e i gruppi parlamentari) e istituzionali (il Presidente della Repubblica, i Presidenti di Camera e Senato) in sede di formazione del Governo. Questo obiettivo si è sempre pacificamente riconosciuto nel fine ultimo di individuare la personalità che meglio potesse conseguire il sostegno della (di una) maggioranza nelle Camere, proprio in forza del rilievo della fiducia nella forma di governo parlamentare. Ebbene, questo aspetto, che certamente neppure oggi manca, tende però nella vicenda presente ad affievolirsi a fronte di un altro obiettivo, che pare assumere un rilievo pari, se non superiore. E che chiama in causa un’altra disposizione, l’art. 95 della Costituzione, la quale disciplina i rapporti tra gli organi necessari del Governo.
Sembra quasi che l’aspetto più problematico e i dubbi da più parti sollevati non siano tanto inerenti all’individuazione di chi con maggiore probabilità potrà conseguire la fiducia delle Camere, quanto se costui sarà in grado di dirigere la politica generale del Governo, essendone responsabile, e di mantenere l’unità di indirizzo politico e amministrativo, promuovendo e coordinando l’attività dei ministri.
Forse un tale aspetto non è mancato nemmeno in passato, in qualche occasione in particolare, quando la ricerca della personalità del futuro Presidente del Consiglio dei ministri era anche fortemente influenzata dalla sua (auspicata) capacità di direzione della politica e di composizione e armonizzazione dell’attività di governo. Ma la vicenda attuale sembra spostare un po’ l’accento. La metafora cui più d’uno ricorre in questi giorni (l’idea di un amministratore delegato con due soci di maggioranza enormemente più potenti alle spalle) esprime forse meglio di altre la peculiarità del caso e ingenera, dal punto di vista delle istituzioni, qualche preoccupazione in più.