Con il cosiddetto decreto milleproroghe di fine anno, che stavolta ne conteneva molto meno a dire il vero, è passato anche il rifinanziamento delle missioni estere, che, in ossequio a una discutibile prassi tutta italiana, avviene con cadenza semestrale. La cosa è passata quasi sotto silenzio e questo implica insieme un fatto buono e uno negativo.
Quello buono è che non c’è più la Lega nel governo a dare battaglia contro, e dunque ecco il motivo di meno clamore e difficoltà. Solo sei mesi fa, invece, si è dovuto fingere, per dare loro soddisfazione, che i militari stanziati fossero scesi da 9 a 7mila per via delle pressioni del Carroccio, ma chiunque avesse avuto un po’ di tempo da perdere andando sul sito della Difesa, avrebbe potuto riscontrare che le truppe italiane erano già state ridotte a 7mila, ben prima dell’approvazione del decreto di metà 2011, e questo per mere ragioni fisiologiche, propaganda leghista a parte.
Il fatto negativo, invece, insito sempre in questo scarso clamore seguito all’approvazione, è la sostanziale indifferenza con cui dall’Italia si continua a guardare a questo enorme sforzo anche finanziario (nonché in vite umane, si pensi agli oltre 40 militari morti nella sola missione in Afghanistan) che le missioni comportano.
Ecco allora un altro versante in cui il clima nuovo creato da questo governo di tregua, concepito per fronteggiare la crisi, può venire buono anche al di fuori del ristretto perimetro della politica economica: per generare una maggiore condivisione politica, ma soprattutto popolare, di questo sforzo che è insieme militare e civile. Nella distrazione ci siamo persi anche un’importante novità. Dalla fine del prossimo gennaio, infatti, la guida della missione Unifil nel Libano del Sud – dove alla vigilia di Natale si è recato il presidente del Senato Schifani – tornerà all’Italia con il generale Paolo Serra, dopo l’eccellente prova data dal generale Claudio Graziano (oggi diventato capo di Stato maggiore dell’Esercito) nel triennio gennaio 2007-gennaio 2010.
E dopo la – si vede – non soddisfacente esperienza del generale spagnolo Asarta Cuevas. Senza che l’Italia abbia mosso un dito, a quanto ci risulta, per ottenere tale riconoscimento – di fatto si è solo provveduto in questi due anni ad assottigliare la nostra presenza di truppe in Libano da 2.500 a 1.000, e questo la dice lunga su quanto ci abbiamo creduto, in questa missione – dall’Onu è arrivata la pressante richiesta al nostro Paese a riprenderne la guida. Segno di una grande considerazione per il ruolo di interposizione che l’Italia è in grado di gestire come nessun altro in un’area che vede ancora lontana la pace fra Libano e Israele e sempre possibile il ritorno al conflitto dopo cinque anni di silenzio delle armi, salvo isolati episodi.
Sarebbe il caso di non sottovalutare questa grande opportunità che ci viene data, nuovamente, evitando di fare come il ministro della Difesa La Russa, che “dimenticò” di recarsi in Libano alla toccante cerimonia di addio di Graziano, due anni fa, preferendo contemporanei impegni contro la ‘ndrangheta. Una scelta imbarazzante, questo improvviso forfait dell’allora ministro della Difesa a una cerimonia che vide mezzo mondo rendere omaggio al Tricolore, che lasciava intendere, in realtà, tutta l’indecisione sulla posizione da tenere in un Paese in cui c’è da gestire il ruolo ambiguo di Hezbollah, da un lato, e il rapporto con Israele dall’altro. Con l’aggravante, agli occhi del governo uscente, dell’egida di Prodi e D’Alema sulla nascita stessa della missione.
Ora, però, non c’entra né il centrodestra, né il centrosinistra. C’entra il buon nome dell’Italia chiamata a un posto di responsabilità in un’area e un momento cruciale per le sorti della pace in Medio Oriente, e per la stabilità di quell’area, a partire dalla sempre più drammatica situazione nella vicina Siria. Sotto la guida italiana di Graziano in quei tre anni è stato creato un modello di cooperazione e dato vita a un vero e proprio laboratorio di pace, al confine con Israele, tenendo a bada in un colpo solo le insidie costituite dai campi profughi palestinesi del Libano del Sud, la minaccia armata di Hezbollah (recuperata un ruolo sociale e politico) e le mire espansioniste della confinante Siria.
Passi importanti verso la pace definitiva sono stati compiuti nei tre anni a guida italiana, ma senza riuscire ad arrivarvi. Nei due anni a guida spagnola che sono seguiti, invece, la situazione si è andata molto complicando e non certo, non solo almeno, per lacune specifiche di chi è subentrato, quanto per un peggioramento geopolitico, nei rapporti fra gli Stati in lotta, all’interno del governo libanese, e soprattutto nella vicina Siria, diventata una polveriera.
La scommessa è dunque ora più difficile, ma la posta in palio è esaltante. Se la guida italiana della missione Unifil dovesse avere successo, sarebbe questo motivo di speranza per tutto il Medio Oriente, un vero e proprio viatico per la nascita di due Stati indipendenti, Israele e Palestina, soluzione verso la quale l’Onu si muove ormai con convinzione, sia pur fra mille resistenze.
Se l’Italia ce la farà sarà la dimostrazione che con l’ausilio di un’autorità veramente riconosciuta da tutti come neutrale la pace è possibile, anche in Medio Oriente. E mai come in questo momento è importante che l’Italia, nota in tutto il mondo per il suo debito, abbia la possibilità di di maturare un credito così importante presso la comunità internazionale.