Sono giorni complessi sullo scenario internazionale, ma non mi addentrerò sui particolari e sulle polemiche di quanto sta accadendo tra Russia, Siria e palazzo di Vetro, il mio compito è parlarvi di economia. E, come vi dico sempre, i fattori economici e quelli geo-strategici sono strettamente connessi, pressoché inscindibili, ma si muovono sotto traccia. Oggi è uno di quei giorni che potrebbe cambiare molte cose, ancorché servirà tempo per accorgersi di quanto avvenuto: comincia infatti la due giorni del presidente cinese, Xi Jinping, negli Stati Uniti in visita ufficiale da Donald Trump. E gli auspici non sono certo dei migliori, visto che lo stesso presidente Usa giorni fa ha definito questo faccia a faccia «molto duro». Non bastassero in agenda temi scottanti come i rapporti commerciali dopo la sortita di Trump sui dazi, le accuse americane di dumping valutario sullo yuan, la disputa sul Mar Cinese Meridionale e le sue isole artificiali e lo status di Taiwan, ecco che l’esperimento missilistico di medio raggio compiuto ieri dalla Corea del Nord nel Mar del Giappone, ritenuto il più pericoloso e aggressivo di sempre dagli analisti, sembra ribaltare le priorità del meeting, tanto che il Dipartimento di Stato ieri ha liquidato con questa formula poco tranquillizzante l’ennesima sortita di Pyongyang: «Abbiamo parlato già troppo».
C’è il rischio di un conflitto diretto? In molti temono di sì, ma a mio avviso l’amministrazione Trump intende utilizzare, almeno nell’immediato, il casus belli nordcoreano per mettere alle strette la Cina su altro, ovvero sul nodo che spaventa veramente Washington. Lo scorso 14 marzo, infatti, la Banca centrale russa ha aperto il suo primo ufficio estero proprio a Pechino, segnando un netto passo in avanti in quella che è un’alleanza sino-russo per bypassare il dollaro nel sistema monetario globale e per dare vita, forti delle loro riserve, a uno standard commerciale basato sull’oro come garanzia e riferimento. Di fatto, una rivoluzione copernicana che sancirebbe la fine della leadership globale Usa sull’economia, dal benchmark di riferimento per il mercato dei futures al concetto stesso di petroldollari fino alla disgregazione di un sistema di scambi che vedrebbe sempre più Paesi sfuggire al vincolo, di fatto debitorio e sotto giogo della Fed, del biglietto verde.
Stando al South China Morning Post, il nuovo ufficio è parte integrante di una serie di accordi tra Cina e Russia finalizzati «a più stretti rapporti economici», alternativa nata in maniera quasi emergenziale come risposta alle sanzioni occidentali contro Mosca e al crollo del prezzo del petrolio, ma ora diventata strategica a livello di equilibri mondiali. Il vice-governatore della Banca centrale russa, Dmitry Skobelkin, ha dichiarato che «l’apertura del nostro ufficio a Pechino giunge in un momento perfetto come supporto diretto a una specifica cooperazione che include l’emissione di obbligazioni, il contrasto al riciclaggio di denaro e misure di contrasto al terrorismo». È politica, ma passa tutto dagli accordi economici. Inoltre, l’apertura ha coinciso con la preparazione da parte di Mosca della prima emissione di bond federali denominati in yuan cinesi, tanto che la cerimonia di apertura del nuovo ufficio si è tenuta nella sede più ufficiale possibile, l’ambasciata russa a Pechino, aperta nell’ottobre 1959 a suggello delle relazioni sino-russe in piena Guerra fredda.
Nel maggio dello scorso anno, i regolatori dei due Paesi hanno deciso di emettere bond denominati nella propria moneta da commercializzare sul mercato altrui, una mossa che di fatto è un vero e proprio test per la tenuta dello status di valuta di riserva del dollaro. Parlando relativamente al futuro dei rapporti con Mosca, il premier cinese, Li Keqiang, dichiarò che il calo del prezzo del petrolio aveva influito negativamente, ma che «oggi vediamo un grande potenziale di cooperazione». Di più, Vladimir Shapovalov, un funzionario di primo livello della Banca centrale russa, ha confermato che le due banche stanno lavorando alla stesura di un memorandum di intenti per risolvere le criticità tecniche legate all’import cinese di oro dalla Russia. Insomma, la Corea del Nord di fatto potrebbe tramutarsi unicamente in una scusa per mettere pressione sulla Cina, visto che nessuno ritiene che Pechino sia in grado di far recedere Pyongyang dai suoi progetti di sviluppo di un programma nucleare e, soprattutto, tutti si dicono certi del fatto che, se si tramutasse in un problema serio, la Cina sarebbe pronta ad abbandonare lo scomodo amico al suo destino.
C’è però dell’altro che spaventa l’amministrazione Trump relativamente all’economia e, quindi, alle mosse parallele di Cina e Russia alle spalle del dollaro: la fragilità insita al sistema produttivo e occupazionale statunitense, svelata l’altro giorno dall’amministratore delegato di JP Morgan, Jamie Dimon, in una lettera di 45 pagine agli investitori. Dopo essersi dichiarato «molto preoccupato» per i possibili fall-outs del Brexit, il banchiere che Trump voleva al Tesoro ha infatti tratteggiato un quadro poco entusiasmante di quella corporate America che la Casa Bianca vorrebbe rivitalizzare a colpi di dazi. «È chiaro che c’è qualcosa che non va, che ci sta ostacolando», ha scritto Jamie Dimon, mettendo in luce quali sintomi del malessere la bassa partecipazione alla forza lavoro, le sfide di istruzione e infrastrutture.
Dimon ha tuttavia affermato di «non essere affatto d’accordo» con chi prevede una situazione permanente di debole crescita e produttività: in particolare, il chief executive crede che la forza dell’economia americana sosterrà il business al consumo di JP Morgan. Un’economia che dovrebbe trarre vantaggio dalle politiche della nuova amministrazione di Donald Trump: al riguardo, giova ricordare che lo stesso Dimon fa parte del business forum creato dal presidente per stimolare la crescita e il lavoro e ha fatto i complimenti al commander-in-chief per aver risvegliato ottimismo, fiducia e animal spirits nell’economia. E proprio una carenza di fiducia, nelle istituzioni come nella globalizzazione e nel libero mercato, viene identificato come uno dei nodi da sciogliere.
Prendendo di petto il tema delle imposte aziendali, che Wall Street spera l’amministrazione riformerà, Dimon ha detto che »il nostro sistema di imposte corporate sta spingendo all’estero capitali e cervelli». Dimon ha affermato che gran parte dei Paesi sviluppati ha ridotto le tasse aziendali negli ultimi dieci anni, mentre gli Stati Uniti restano «a livelli massimi, causando considerevoli danni». Splendidi concetti teorici, ma, sostanzialmente, aria fritta. Ciò che conta e che trasformerà l’economia nell’incubo fisso dell’amministrazione Trump sta tutto in questo grafico, il quale ci parla di un sistema produttivo interrotto.
La partecipazione alla forza lavoro negli Usa è scesa dal 66% al 63& dal 2008 a oggi, un qualcosa di assolutamente giustificabile con ragioni che non devono spaventare a livello macro, ad esempio l’invecchiamento della popolazione. Ma se prendiamo in esame un singolo segmento chiave della forza lavoro Usa (la linea nera nel grafico), qualcosa cambia e di parecchio: gli uomini tra i 25 e i 54 anni, infatti, rappresentano non solo il cuore della produttività ma anche la criticità maggiore dell’economia Usa. Il grafico ci mostra infatti che in America quel particolare settore ha visto la partecipazione alla forza lavoro passare dal 96% del 1968 all’attuale 88%, una percentuale più bassa di qualsiasi altro Paese sviluppato al mondo. Se si riuscisse a riportare quel tasso al 93% – il livello medio per il mondo sviluppato -, qualcosa come 10 milioni di americani potrebbero tornare a lavorare, ma ci sono altre criticità che rendono questa ipotesi peregrina e il quadro più plumbeo: il 57% dei maschi non nella forza lavoro è disabile, mentre il 71% dei giovani tra i 17 e i 24 non è idoneo al servizio militare per mancanza di educazione di base (saper leggere e scrivere) o problemi di salute (quasi sempre obesità o diabete).
Questa è l’America oggi, un’economia minata alle fondamenta e completamente drogata da anni e anni di denaro a costo zero che hanno gettato sotto il tappeto lo sporco di un sistema disfunzionale e non sostenibile: ora che la Fed sta alzando i tassi, di fatto parlando la lingua di una normalizzazione della politica monetaria, tutto ciò che va storto sta emergendo nella sua drammaticità di fondo. Un’economia con debolezze strutturali simili può essere salvata con i dazi sulla Vespa? Nemmeno per sogno, anzi andrebbe a incidere sui consumi interni in una società che è ben lungi dal dipendere dai servizi e che ancora vede i consumi pesare per il 70% del Pil: dazi significa tassazione indiretta, ancorché di una minoranza in grado di comprare import (peccato che quella minoranza muova l’economia, essendo la parte più benestante della società).
Pensate che l’amministrazione Usa, in condizioni interne e globali simili, possa permettere anche soltanto la messa in discussione teorica del ruolo del dollaro come valuta di riserva? E altresì, pensate davvero che la preoccupazione maggiore di Washington siano i missili nordcoreani, piuttosto che i rapporti commerciali sempre più stretti tra Pechino e Mosca? Da un lato si punta sul solito warfare, il moltiplicatore keynesiano del Pil legato all’industria bellica (nuovo interventismo in Iraq, Yemen e Afghanistan, oltre che la minaccia verso la Corea del Nord) e dall’altro si cercherà di tamponare i sabotaggi esterni, usando la carta della diplomazia o della guerra a bassa intensità sui cambi valutari e sul costo del denaro. È guerra economica, la nuova frontiera.