Jyrki Katainen è venuto a Roma, ha apprezzato gli sforzi fatti dal governo e se n’è andato lasciando in sospeso sia il giudizio sulla politica di bilancio, sia quello sui veri spazi di flessibilità consentiti, soprattutto dal lato degli investimenti, visto che il misero e fumoso piano Juncker stenta a decollare. Il ministro Pier Carlo Padoan non ha ancora aderito e si comprende la sua cautela, anzi il suo scetticismo. In realtà, all’Italia conviene non partecipare alla piccola farsa, per non dare coperture a una operazione di basso livello e per lasciarsi qualche margine di manovra su base nazionale. Che senso ha pagare opere infrastrutturali in Portogallo o magari in Germania, con tutto quel che c’è da fare a casa nostra?
È un discorso poco europeista? È il frutto da raccogliere in base a quel che si è seminato. Anche perché i nuovi criteri proposti dalla Commissione non offrono grandi spazi. Eppure, l’Italia ha bisogno di una politica economica coraggiosa. Il primo bollettino della Banca d’Italia per il 2015 ha gelato gli entusiasmi ridimensionando la crescita a un misero 0,4% (altro che l’1,3% previsto in precedenza) dopo il -0,4% dello scorso anno, con un prezzi negativi (-0,2%). Cruciale sarà il ruolo degli investimenti, secondo gli economisti di palazzo Koch. Ma l’Unione europea sarà di scarso aiuto.
Il Patto di stabilità resta stupido come prima (definizione data da Romano Prodi, non è male ricordarlo). Lo sottolinea Andrea Boitani, docente all’Università Cattolica, su lavoce.info. Sugli investimenti, la flessibilità consiste nel fatto che i contributi finanziari degli Stati non verranno contati come ulteriore deficit per il raggiungimento dell’obiettivo di medio termine e non scatterà la procedura per deficit eccessivo. Inoltre, si potrà applicare la “clausola investimenti”, che riguarda progetti decisi e finanziati a livello nazionale e che contribuiscano a innalzare il tasso di crescita potenziale e la sostenibilità delle finanze pubbliche in modo verificabile.
La stessa clausola, però, è condizionata da una serie di fattori: 1) la crescita del Pil deve essere negativa o il Pil deve rimanere “ben al disotto del potenziale (risultante in un output gap superiore dell’1,5% del Pil)”; 2) la deviazione non porti a superare la fatidica soglia del 3% del rapporto deficit/Pil; 3) essa sia dovuta a investimenti all’interno di progetti cofinanziati dall’Ue o a cofinanziamenti nazionali di progetti cofinanziati dall’Efsi; 4) i cofinanziamenti non sostituiscano spesa per investimenti interamente finanziata a livello nazionale; 5) gli Stati raggiungano il loro obiettivo entro quattro anni. “È plausibile che l’insieme di queste condizioni finisca per essere così restrittivo da vanificare in gran parte la clausola”, scrive Boitani. Per l’Italia, se tutto andasse bene, ci sarebbe una riduzione dell’aggiustamento dello 0,25% del Pil anziché dello 0,5%. Un po’ di respiro e nulla più.
Ma attenzione, anche le riforme strutturali hanno la loro “clausola”: debbono essere “di peso”, cioè debbono avere un impatto consistente e positivo sulla crescita e la finanza pubblica nel lungo periodo. Per le pensioni c’è l’introduzione di un pilastro basato sul sistema di capitalizzazione; quanto alla sanità, per avere impatto consistente e duraturo sulla finanza pubblica deve tradursi o in riduzione della copertura “assicurativa” o in riduzioni dei costi, cioè in buona parte in riduzioni degli stipendi. Infine, le riforme debbono essere pienamente realizzate.
Non c’è certo di che scialare. In sostanza, Padoan ha conquistato tre mesi di tempo e dovrebbe utilizzarli per mettere in piedi una politica di bilancio di più ampio respiro. L’Italia ha bisogno di una spinta che porti la crescita nominale (inflazione compresa) vicino al 3% annuo per rispettare il sentiero di riduzione del debito tracciato dal Fiscal compact senza nuove strette controproducenti. Un punto dovrebbe arrivare dal lato dei prezzi, se la politica monetaria della Bce riuscirà a frenare la deflazione (tutti gli occhi sono puntati sulle mosse di Mario Draghi la prossima settimana). Un punto dall’andamento della congiuntura e un punto in più da una manovra straordinaria. Di che tipo?
Ci sono vari modi per rilanciare la crescita con la politica economica e di bilancio. Per esempio, ci sono gli investimenti pubblici sollecitati dalla stessa Banca d’Italia. Ma i tempi sono lunghi i risultati incerti, le variabili molteplici dal popolo del no alla magistratura. Soprattutto, abbiamo visto che i margini di manovra dal lato della spesa sono ristrettissimi.
La via maestra è ridurre le imposte a cominciare da quelle sul lavoro. Il governo lo sa, tanto che ha fatto qualcosa già l’anno scorso (a cominciare dagli 80 euro). Manca, però, un percorso certo che conduca ad abbassare la pressione fiscale sul reddito, finora invece si è spostato il peso da una spalla all’altra.
È chiaro che i margini sono esigui anche per questo. Non si tratta di fare promesse insostenibili, ma di indicare un passo alla volta, anche piccolo, con realismo, ma con determinazione, in modo che famiglie e imprese siano certe di vedere davanti un percorso in discesa.
Bisogna trovare le coperture, ovviamente. Una parte può venire dalla crescita stessa (dunque per una certa quota le riduzioni fiscali si autofinanziano), una parte dalla riduzione dell’onere del debito grazie a bassi tassi d’interesse e al Qe, una parte da operazioni straordinarie come la vendita di patrimonio e aziende pubbliche, un’altra quota da una riduzione anch’essa certa e definita nel tempo, della spesa corrente. Dove e di quanto?
La spending review aveva messo nero su bianco 17 miliardi in tre anni. Cottarelli se n’è andato, i suoi piani sono finiti nel cassetto, come già era successo con quelli di Piero Giarda ed Enrico Bondi. Il governo non li ha mai rinnegati formalmente e tanto meno lo ha fatto Padoan. A questo punto il ministro dell’Economia dovrebbe riprenderli in mano, dicendo chiaramente che quelle risorse vanno a riduzione delle imposte, così come aveva proposto lo stesso Cottarelli prima di finire sotto i fulmini di Renzi.
È la svolta che tutti si attendono, di fronte alla quale anche l’Unione europea non potrebbe obiettare nulla, se formalmente viene mantenuto il tetto del 3% nel rapporto deficit/Pil. Ma anche in caso contrario, di fronte a una deviazione temporanea in grado di produrre un punto in più, sarebbe davvero un accanimento mettere in moto la procedura d’infrazione. Una scelta politica alla quale l’Italia dovrebbe rispondere con quel primato della politica tanto caro a Matteo Renzi.