“Lei ha ricordato con grande attenzione — salvo sempre possibili ulteriori chiarimenti — il confronto interno al Partito comunista tra gli anni 60 e la scomparsa di Berlinguer”.
Il commento arriva su Facebook dal presidente emerito della Repubblica Giorgio Napolitano. E’ un elogio al lavoro di ricerca e documentazione. E in fondo un elegante consenso alle tesi sostenute nell’ultimo libro da Ugo Finetti Botteghe oscure. Il Pci di Berliguer&Napolitano (Ares, 2016) dove emerge la battaglia tra colui che è passato alla storia come il “pupillo” di Palmiro Togliatti (Berlinguer) e colui che veniva indicato come il “delfino” di Giorgio Amendola.
In fondo nella scrupolosa ricerca di Finetti c’è la continuità di una ricerca appassionata, cominciata prima con La Resistenza cancellata, poi con Togliatti&Amendola. La lotta politica nel Pci e infine con quest’ultimo libro. Un autentico trittico, pubblicato sempre da Ares, di grande storia politica italiana, che pone l’accento sui limiti, sulle contraddizioni e sul mancato appuntamento della sinistra italiana a costruire un grande partito unico, che potesse incidere in modo autenticamente riformista in una società come quella italiana e nel contesto occidentale europeo. E un trittico che, in realtà, fa la contro-storia delle “leggende metropolitane” che spesso circolano su libri di testo universitari e su libri seriosi scritti da storici conformisti che hanno quasi “santificato” l’Enrico Berluinguer della “questione morale”.
Martedì pomeriggio il libro di Finetti è stato presentato al Centro Studi Grande Milano con un dibattito introdotto da Daniela Mainini e da protagonisti della politica italiana di ieri e di oggi: Sergio Scalpelli, Piero Borghini, Umberto Ambrosoli, Carlo Cerami. Ed è proprio dal dibattito che sono emersi tutti i limiti della sinistra di ieri e probabilmente anche di quella di oggi. Quando, come ha ricordato Borghini, qualcuno invoca “la difesa del dna”, bisognerebbe chiedersi: quale dna si doveva e si deve difendere?
Qualcuno ricordava che il Pci, ad esempio, non poteva avere rapporti ufficiali con il Partito laburista inglese, proprio perché si chiamava Pci. E quando si cambiò nome, perché era franato il Muro di Berlino, i post-comunisti mantennero nel loro simbolo, pur di partiti che cambiavano nome, quello del Komintern fino al 1998, quando uscì il famoso testo di Stephane Courtois Il libro nero sul comunismo, che fece dire a un signore vagamente “ritardato” in storia, Walter Veltroni, che lui non si sarebbe iscritto al Pci di Togliatti. Come se iscriversi al Pci nel 1970 non significasse aderire al partito di quello che ancora era considerato il “Migliore”.
In realtà, i conti con la storia pesano su una parte della classe dirigente comunista e postcomunista, anche oggi quando rivendicano la difesa di un “dna” e devono fare i conti con il decisionismo sgomitante di un ex democristiano intraprendente, anche se un po’ pressapochista, come Matteo Renzi.
Ma pesavano soprattutto ai tempi della segreteria di Berlinguer, quando, nella prima decade del settembre 1981, si apre lo scontro tra Berlinguer e Giorgio Napolitano, in modo aspro e duro, fino all’estromissione dal vertice del partito di Napolitano, voluto quasi con astio dal segretario.
Barricato dietro alla sua “diversità” e alla “questione morale”, nella sostanza, con quell’atto Berlinguer ribadisce il suo no secco alla socialdemocrazia europea, alla collaborazione tra comunisti, socialisti e laici in una visione nuova della sinistra, che già era stata tracciata, nell’ottobre del 1964, da Giorgio Amendola. Ed era di fatto già stata bocciata nel 1961 (dopo il XXII congresso del Pcus), per puro filo-sovietismo, da quello che Stalin chiamava “l’avvocato del Komintern”, cioè Palmiro Togliatti.
Il solitario e leonino Giorgio Amendola, nel settembre del 1981, era già morto da un anno. Ma Napolitano riproponeva la questione. L’ultima grande battaglia contro il settarismo e l’estremismo nel Pci, ribadendo la concezione di un partito nuovo, Amendola l’aveva condotta nel novembre del 1979. Era iscritto al Pci da cinquant’anni, era stato un eroe e un protagonista-principe della Resistenza, nel nome di suo padre Giovanni e del Pci. Ma tutto questo non fu sufficiente a qualcuno per alzarsi a difendere il “vecchio leone”. Non lo fece neppure Napolitano. Così Amendola si prese dal segretario Berlinguer l’insulto di “non conoscere l’abc del marxismo”. Nel settembre 1981, Napolitano, con altri esponenti del partito aprì invece la partita con Berlinguer.
Forse Berlinguer era diventato anche rancoroso, quasi fatalista e profondamente pessimista, perché viveva in un mondo che gli stava crollando intorno. E se ne rendeva conto.
Per questo, a nostro parere, si rifugiava nella “questione morale”, che purtroppo si trasformò in un giustizialismo d’accatto e in uno sfogo generalizzato di antipolitica militante, proprio nel momento in cui l’Unione Sovietica e la “lezione di Lenin”, come la chiamava Berlinguer, si frantumavano di fronte alla dura realtà della storia.
Nel dibattito di martedì al Centro Studi Grande Milano, alla fine, chi ha descritto in modo migliore, con accenti quasi di comprensione, Berlinguer è stato proprio Finetti. Il segretario comunista è stato sicuramente il comunista che ha cercato il maggior allontanamento del Pci dall’Urss, che ha cercato di diventare indipendente dai sovietici anche sui finanziamenti, ma il suo perimetro ideologico restava quello di un comunista, di un uomo che con il socialismo democratico occidentale non riusciva ad andare d’accordo, non riusciva a elaborare una linea politica. Tutto questo pesa ancora oggi, perché una vera riflessione su Berlinguer l’ha fatta solo un “eretico” come Ugo Finetti, non il codazzo conformista che sta ancora “stampando santini” su Berlinguer, la sua figura e il suo operato, che ha procurato guai alla sinistra di ieri e di oggi.