Prosegue la luna di miele tra governo Gentiloni e stato di salute dell’economia italiana, con enorme scorno del povero Matteo Renzi, il quale a ogni dato positivo si fionda si Twitter a rivendicarne la paternità, salvo lisciare falsamente le piume ai meriti dell’attuale esecutivo in un patetico gioco delle parti.
Questa volta a segnalare un balzo è la produzione industriale, che a luglio 2017 è aumentata del 4,4% su base annua nei dati corretti per gli effetti di calendario. Rispetto a giugno, invece, l’aumento si attesta allo 0,1%. L’Istat fa notare che l’indice tendenziale è in crescita quasi ininterrotta da agosto 2016, con la sola eccezione di gennaio 2017. Fanno da traino i beni strumentali, che vedono un forte aumento del 5,9% sull’anno e “sono l’unico comparto ampiamente sopra il livello del 2010” ma aumentano anche beni di consumo (+4,1%), intermedi (+3,5%) ed energia (+3,3%). Tra i settori, spicca quello della produzione di autoveicoli, che aumenta del 9,1% a luglio 2017 rispetto allo stesso mese del 2016: nei primi sette mesi dell’anno l’incremento rilevato dall’Istat è del 10%. Vanno molto bene anche nel confronto annuo l’attività estrattiva (+8,4%), la fabbricazione di macchinari e attrezzature n.c.a. (+8,0%), delle industrie alimentari, bevande e tabacco e della fabbricazione di mezzi di trasporto (entrambi +6,9%).
Ed ecco che arriva la rivendicazione: “I dati della produzione industriale di oggi sono dati che solo uno o due anni fa avremmo considerato impossibili da raggiungere, il Paese è in ripresa seppure con difficoltà”, ha twittato Paolo Gentiloni. Ma, in contemporanea con la pubblicazione del dato, ecco che un’altra notizia arriva a nobilitare l’operato dell’esecutivo: “La revisione del piano operativo dell’operazione Triton di Frontex nel Mediterraneo, chiesta dall’Italia, è stata avviata a luglio, è proseguita con due bilaterali a livello tecnico ad agosto e settembre e pensiamo di avere il nuovo piano nei prossimi due mesi”, ha dichiarato a metà mattina di ieri il direttore dell’agenzia europea della guardia di frontiera e costiera, Fabrice Leggeri.
Insomma, ad emergenza sbarchi terminata grazie agli accordi libici aperti e chiusi a tempo di record da Marco Minniti, di fatto anche responsabile della Farnesina in pectore da almeno un mese e alla stagione che ormai volge all’autunno, l’Ue ci regala la seconda gioia in meno di una settimana su uno dei temi più scottanti in assoluto. Prima la bocciatura da parte della Corte Ue delle richieste dei Paesi dell’Est di non accettare i ricollocamenti e, adesso, un’apertura su Frontex che solo a luglio fu negata decisamente (anche per la dura opposizione proprio dei Paesi del “Gruppo di Visegrad”) e che nella propaganda governativa vedrete che diverrà prodromica a una messa in discussione dell’intero Trattato di Dublino, quello relativo agli obblighi del primo approdo.
Ora, che l’Istat quando c’è aria di elezioni si traduca nel megafono del governo (qualunque sia il suo colore politico) è cosa nota, quindi non stupisce. Ma questa filo-italianità dell’Ue appare quantomeno sospetta. Certo, ci sono le elezioni in Germania che non solo paralizzano tutto ma richiedono aria da concordia, al fine di stroncare sul nascere velleità anti-europee o anche solo di critica, ma dopo il primo dibattito la Spd è letteralmente crollata al 21%, di fatto rendendo possibile una sconfitta della Merkel soltanto se questa cominciasse a proporre follie o proclamasse la cessione di territori per questioni di budget. Di più, i continui dati positivi per la nostra economia stanno aprendo non varchi ma sentieri per un Def che non appaia da lacrime e sangue e che, anzi, abbia margini di trattativa per mance e mancette elettorali in vista del triplice appuntamento elettorale (Sicilia a novembre, legislative e una tornata di importanti regionali, tra cui la Lombardia, in primavera). Di colpo, nessuno ci chiede più rientri fulminei, nessuno ci ricorda più il deficit e il debito come accompagnamento del caffè al mattino, nessuno oppone veti a proposte di spesa e non di tagli: incredibile, Gentiloni e la sua “forza tranquilla”, per citare Mitterrand, hanno fatto miracoli.
Proprio sicuri? No, perché è l’aria in generale a essersi fatta da Mille e una notte. Ieri la missione tecnica dei creditori della Grecia è tornata ad Atene per preparare il terreno alla prossima valutazione del programma di salvataggio ellenico da 86 miliardi di euro, anche se i negoziati veri e propri dovrebbero iniziare a ottobre, dopo che il governo avrà illustrato al Parlamento la bozza del bilancio 2018. Bene, sapete cos’ha detto domenica, parlando alla 82ma Fiera internazionale di Salonicco, il premier Alexis Tsipras? Che nel 2018 la supervisione dei creditori finirà certamente e che la Grecia può sopravvivere senza l’Fmi. L’avesse detto solo due mesi fa, sarebbe stato linciato a mezzo stampa tedesca in un’ora. Cosa è cambiato?
Tutto. Per la Grecia, ad esempio, il fatto che la Cina controlli ormai il Pireo e quindi che non accetterebbe blitz della Troika sul suo gioiellino comprato a prezzo di saldo ma anche che, furbescamente, Alexis Tsipras abbia aperto a una fantomatica partnership privilegiata con la Russia, in caso l’Europa continuasse a strangolare il suo Paese. Ma, sopra a tutto questo, c’è dell’altro che giustifica questo clima da “pizza e fichi” nell’Unione e lo ha spiegato chiaramente ieri, parlando a un convegno a Francoforte, il membro del board della Bce Benoit Coeuré. “L’accelerazione della crescita della zona euro può compensare alcuni degli effetti negativi dell’apprezzamento della moneta unica ma un persistente shock sui cambi potrebbe ridurre l’inflazione”, la sua lettura. E ancora: “Alla luce delle sfide che la Bce deve affrontare per far crescere i prezzi, la sua definizione di ‘medio termine’, l’orizzonte temporale per raggiungere l’obiettivo di inflazione della Banca centrale, potrebbe essere più lungo del previsto. Con l’attuale ripresa nella zona euro largamente guidata dalla domanda domestica, la forza dell’euro potrebbe avere anche un effetto sulla crescita più contenuto rispetto, per esempio, a quanto avvenuto dopo la grande crisi finanziaria”. Tuttavia, ha ammonito, “gli shock esogeni sul cambio, se persistenti, possono portare a un irrigidimento delle condizioni di finanziamento con conseguenze non desiderabili sulle prospettive di inflazione”. E con l’euro ormai stabilmente sopra quota 1,20 e Draghi che ha dato più di un indizio rispetto ai rischi di un tapering, le parole di Coeuré paiono la conferma di una Bce costretta al passo più lungo della gamba al meeting dei prossimi 25 e 26 ottobre, ovvero ammettere che serve altro — e molto — stimolo. Tutti contenti che si continui a stampare?
Certamente le Borse, come ha dimostrato ieri Piazza Affari. Ma chi ha sale in zucca, cosa pensa? Non pensa, scarica ciò che ha in portafoglio con un parco buoi sempre più ampio ed eccitato, talmente pronto ad acquistare anche carta igienica a qualsiasi prezzo da aver mandato il FTSE Mib sopra quota 22mila punti. In un mondo normale, ovvero dominato da dati macro e dinamiche di domanda e offerta, dopo le parole di Coeuré, le Borse sarebbero dovute crollare. Invece no. Ma lo stesso vale per un’economia come quella italiana, viva solo grazie al Qe e gravata da disoccupazione record, sofferenze bancarie, occupati di fatto solo a tempo determinato, investimenti ridicoli e che invece l’Istat continua a dipingere in continuo progresso. Addirittura Tsipras può permettersi di alzare la voce con Washington nel meraviglioso mondo della Bce.
Ma attenti, non durerà a lungo. Le elezioni tedesche del 24 settembre sono dietro l’angolo: passate quelle, tutto tornerà come prima. E le criticità torneranno a galla, più gravi di prima. Anche perché una settimana dopo il voto di Berlino, ci sarà lo showdown tra governo centrale e governo catalano sul referendum per l’indipendenza, mentre il 15 ottobre sarà il turno delle legislative in Austria e il 5 novembre le elezioni regionali in Sicilia, vero banco di prova della forza del Movimento 5 Stelle e, quindi, del grado di timore che si debba avere, a livello europeo, per un suo possibile approdo al governo nel Paese nel 2018.
Siamo in pieno nella calma prima della tempesta, qualcuno lo sa, qualcuno finge di non saperlo. Molti davvero non lo sanno. E se quanto i dati ci dicono sulla nostra economia pare troppo bello, è perché lo è: la favola si racconta bene, avrà ancora giorni di narrativa davanti a sé. Ma attenti al lieto fine, perché non ci sarà.