Dove sarà in questo momento Sergio Marchionne? A Torino, a Detroit, a Berlino? Probabilmente sarà sul suo jet diretto verso una di queste tre mete per negoziare la partita doppia che ha aperto con governi e sindacati americani e tedeschi per creare il supergruppo dell’auto da 6 milioni di pezzi l’anno.
Il tentativo dell’instancabile amministratore delegato della Fiat di mettere il marchio torinese assieme a quello della Chrysler e della Opel (più, forse, anche alcune parti della General Motors sudamericana) è guardato con grande simpatia dai media e in generale dall’opinione pubblica italiana. Il presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, ha detto di fare il tifo per il successo di questa operazione, che ritiene positiva per gli azionisti, l’azienda, l’industria. Insomma: un bene per il paese. Che si trova unito, per una volta, a sostenere le fatiche di questo particolare manager anticonformista, con il suo perenne pullover, gli occhiali spessi, l’aria un po’ svagata e una capacità di lavoro che non ha molti paragoni.
Marchionne, un avvocato italo-canadese, fino a cinque anni fa era quasi sconosciuto non solo al grande pubblico, ma anche alla gran parte della stampa economica. Poi, arrivato a capo della Fiat, ha compiuto il miracolo di rimettere in sesto il gruppo automobilistico che molti pensavano destinato a un sicuro fallimento. E da allora è stato un personaggio, un modello. E ancora di più lo è in questi giorni, trasformato quasi in un eroe perché ha saputo concludere l’accordo con la Chrysler e ha impostato quello con la Opel, filiale tedesca della General Motors, in cerca di compratori a causa delle condizioni preagoniche della casa madre.
Certo l’industria dell’auto è in una crisi paragonabile solo a quella che attraversò dopo la grande crisi petrolifera dell’ottobre 1973. E nelle condizioni in cui è ridotta è indispensabile reagire, trovare delle soluzioni: non si può stare fermi ad aspettare che passi la burrasca. In questo senso, Marchionne si è mosso meglio di qualsiasi altro suo collega: ha preso l’iniziativa, sta cercando di dar vita a una realtà in grado di produrre grandi numeri, la sola via per ottenere economie di scala e ridurre i costi. Ma non è una strada in discesa quella che ha scelto.
Due sono gli interrogativi che si pongono sul suo progetto di SuperFiat. Il primo riguarda la squadra. Gestire la Chrysler non sarà un’impresa facile. La casa di Detroit – non va dimenticato – è stata per 11 anni di proprietà dei tedeschi della Daimler, che non sono riusciti a integrarla e a portarla in utile e alla fine hanno gettato la spugna. Marchionne dovrà trovare il modo per fare meglio di loro. Ha i manager adatti per questa sfida? Alla campagna americana adesso si è aggiunta anche quella tedesca. Dunque sarà necessario mettere assieme un secondo team. È pronta in casa Fiat, o nelle sue vicinanze, una panchina così lunga?
La seconda perplessità è di ordine finanziario. La Fiat è entrata al 20% nella Chrysler senza spendere un soldo. Però se vorrà (come ha promesso all’amministrazione Usa) mettere in linea di montaggio nuovi modelli di auto a bassi consumi, avrà bisogno di capitali. Il Lingotto ha già un indebitamento che sfiora il livello di guardia, quindi non potrà ricorrere al credito bancario. Basteranno i finanziamenti promessi dalla Casa Bianca?
E il tema delle risorse finanziarie diventa ancora più problematico con l’aprirsi della prospettiva Opel. Gli americani della General Motors sono disposti a cedere la loro filiale europea, ma vogliono incassare un corrispettivo: la cifra è nebulosa; si parla comunque di miliardi di euro. La Fiat non li ha. Il suo azionista di maggioranza relativa, la Exor della famiglia Agnelli, ha detto che non è disponibile a investire altri capitali nel settore auto, nel quale ritiene di essere già fin troppo esposta. E allora? Dovrà veramente dimostrare di possedere doti magiche Sergio Marchionne.