Si sta verificando un fatto originale nella pubblicistica italiana. Non si parla più del “declino” dell’Italia. È come se la grande crisi finanziaria globale e la conseguente recessione economica avesse azzerato un tormentone che ritornava ripetutamente negli editoriali della grande stampa, oppure veniva lanciato come un paradigma in alcuni saggi brevi di “grandi economisti”e analisti alla moda.
Sarebbe abbastanza divertente, ma sarebbe meglio definirlo un esercizio grottesco, paragonare le previsioni delle cosiddette “grandi agenzie di rating” internazionali ai titoli periodici di “The Economist” che riguardavano in particolare modo l’Italia, che sembravano sentenze elargite dalla cattedra di una “università” dove tutto funzionava al meglio.
Per alcuni oggi la risposta è abbastanza semplice: la crisi globale di fatto ha inglobato anche il “declino” italiano, che era in atto da anni. Le scorrettezze (ma si scoprono adesso?) sui mercati internazionali dei grandi intermediari finanziari, delle mitiche “cinque stelle” di Wall Street, le celebri banche d’affari, avrebbero distorto e sbullonato un “mercato perfetto” a cui l’Italia era recalcitrante. Anzi, solo alcuni “lupi mannari” sarebbero gli artefici di questo sconquasso mondiale. Si potrebbe azzardare che è molto comodo, a volte, far fallire irresponsabilmente Lehman Brothers e avere un tipo alla Bernard Madoff alla sbarra. A noi tutto questo appare tragicamente comico.
In realtà, anche gli anti-ideologici anglosassoni avevano una loro ideologia che sarebbe meglio smontare. Valgono di più con tutta probabilità alcuni principi elementari della vita, un sano “bagno” nella realtà di tutti i giorni, a creare un Paese sufficientemente funzionale e a saper affrontare le difficoltà che periodicamente nella storia della società e delle comunità sociali si devono affrontare.
Pur incrostata da vecchie ideologie decrepite e da nuovi “modelli culturali” importati, l’Italia oggi riscopre un’antica tradizione e civiltà che resiste di fronte non solo a difficoltà, ma a tremende tragedie. Si pensi solamente alla mobilitazione del Paese di fronte al terremoto dell’Abruzzo. Può essere anche un moto spontaneo, momentaneo, di umana compassione, ma può anche essere la struttura umana e divina della carità cristiana che ritorna a esprimersi e ad agire nel tessuto sociale. E la carità è un mistero che spiazza tutti e crea una nuova civiltà o forse l’ha forgiata in secoli di storia e non è mai stata cancellata.
Basterebbe solo questa prova, che è di fronte agli occhi di tutti, a ridimensionare quello che era chiamato spregiativamente il “declino italiano”. Ma ci limiteremmo solo a un episodio. Veniamo ad altri parametri. Sono un pò troppo sbrigative le relazioni che arrivano sul debito delle famiglie negli
Stati Uniti (14 trilioni di dollari) o di quelle inglesi o di quelle tedesche. Mentre ancora si conta la ricchezza delle famiglie italiane e si calcola il loro scarso indebitamento. Spietati nel rammentare che bisogna «contenere il debito pubblico» (fatto giusto, per carità), nessuno dei grandi “soloni internazionali” si dilunga mai troppo sul sistema di vita degli altri Paesi, che non apparivano mai in declino, anche se le persone e le famiglie vivevano perennemente a debito.
Se si dovesse esaminare, una volta per tutte e finalmente, il debito aggregato, in che rango sarebbe l’Italia? Probabilmente saremmo di fronte a sorprese incredibili, che farebbero modificare tutte le classifiche attuali e quindi anche i criteri usati dalla agenzie di rating sui sistema-paese.
Ci sono poi “rivelazioni da crisi” che sono di estremo interesse e che dovrebbero essere una lezione per i tanti “declinisti” di un tempo. Come è mai stato possibile che la tecnologia italiana possa risolvere i problemi di una tecnologica obsoleta come quella americana e tedesca nel campo automobilistico? Chi avrebbe mai immaginato che l’indebitata e sconquassata Fiat dell’inizio anno Duemila fosse indicata dal presidente Obama come il partner adatto per il colosso Chrysler? E perché la tedesca Opel sta oggi considerando l’opzione Fiat?
Come è ancora possibile che la media banca territoriale italiana si sia rivelata più funzionale e meno intossicata dei colossi statunitensi, britannici, olandesi, tedeschi e spagnoli? Come è possibile che la struttura economica e industriale, che si è formata nell’ex “triangolo del boom”, si sia trasformata in quello che viene chiamato quarto capitalismo, cioè una megalopoli (la cosiddetta megalopoli padana), che produce beni e servizi da primato mondiale?
L’impressione è che, assorbiti da ideologie e modelli importati, dopo aver abiurato la “grandeur” marxista, molti osservatori non abbiamo analizzato sufficientemente come si modificava lentamente la struttura economica (operazione marxista) che avveniva nel motore economico italiano, cioè tra Milano, Genova, Torino e il Nord Est. Sembra quasi che nessuno abbia mai aperto in questi anni un libro dello storico dell’economia Giuseppe Berta o abbia letto i dati sfornati con costanza da Fulvio Coltorti, capo Ufficio Studi di Mediobanca, oppure abbia considerato le attente analisi di un grande economista come Alberto Quadrio Curzio, che erano una “smentita” nei fatti e nei dati del “declino”.
In realtà il “declino” veniva vissuto come il “figlio legittimo” della ideologia del “mercato perfetto” che poi è franato come tutte le ideologie. Ma state certi, nessuno ammetterà mai di aver sbagliato e si ricorderà delle diagnosi delle agenzie di rating e dei titoli di “The Economist”. Di tutto questo, almeno gli italiani dovrebbero tener conto.