Di fronte a problemi di particolare rilievo arretra il decisionismo schmittiano cui sin dall’inizio è sembrato ispirarsi il Governo Renzi. Come noto, si è ripetutamente intervenuti con decreti-legge, maxi-emendamenti e questioni di fiducia su problematiche anche piuttosto settoriali, e forse non sempre meritevoli di atti e comportamenti così impegnativi per il Governo. Viceversa, su almeno tre tematiche di particolare gravità, l’assenza del decidere prevale sulla rapidità di decisione.
Prendiamo, ad esempio, la tragica questione dei migranti, sulla quale il Governo ha sostanzialmente deciso di attendere, preferendo muoversi nelle sedi europee ed internazionali, prima di addivenire ad un qualche passo concreto. Ma, come tante altre questioni che si presentano nello scacchiere globale, anche l’afflusso sempre più massiccio dei migranti è la cartina al tornasole dell’impotenza del modello di “governo europeo” come si è sinora determinato.
Al di là delle strumentalizzazioni di parte, è evidente che l’ospitalità incontrollata produrrà tensioni che, dapprima circoscritte alle zone già più degradate del nostro territorio, colpirà l’intera collettività, e pure coloro che si ritengono protetti dai privilegi di censo sinora acquisiti. Appellarsi ed affidarsi alle decisioni dell’Unione europea su un tema strettamente inerente agli interessi unitari di cui l’autorità statale è direttamente tutore e responsabile — come dice espressamente la Costituzione nell’art. 117, comma 2 — significa imboccare una strada tortuosa, disseminata di reciproci veti, e il cui il punto di arrivo sembra già destinato a presentarsi come un compromesso tardivo e insufficiente. Ed è purtroppo facile prevedere che alla debolezza delle soluzioni che saranno infine concordate si accompagnerà il verificarsi di sempre più aspri conflitti e luttuosi eventi che potrebbero imporre decisioni radicali sinora accantonate.
Occorre, a questo proposito, ricordare le condizioni cui la Costituzione, nell’art. 11, subordina la possibilità di accettare limitazioni di sovranità rispetto agli ordinamenti sovranazionali: parità con gli altri Stati, e perseguimento di finalità di pace e giustizia. Se, addirittura nello stesso tempo, l’una e l’altra condizione vengono meno, come si sta dimostrando in concreto nel corso delle defatiganti trattative a livello europeo e internazionale, nessun impegno assunto in queste sedi potrà essere considerato costituzionalmente idoneo a limitare l’azione dei nostri organi rappresentativi a difesa della collettività nazionale.
Anche la spinta propulsiva del Governo sulle riforme istituzionali, poi, appare in uno stato di impasse. La definitiva approvazione della legge elettorale limitata alla Camera dei deputati e con la decorrenza rinviata al primo luglio del 2016, ha prodotto una situazione di blocco, a dir poco paradossale, sul disegno di legge di revisione della seconda parte della Costituzione. La predetta legge, infatti, è relativa all’Assemblea parlamentare che, in base del progetto di riforma costituzionale in corso di approvazione, darà in via esclusiva la fiducia al Governo e che resterà la sola ad essere eletta direttamente. Invece il futuro Senato, come noto, sarà escluso dal circuito fiduciario e sarà formato da componenti tratti “dai” Consigli delle Regioni e delle Province autonome di Trento e Bolzano.
Insomma, la legge elettorale già approvata si collega e si giustifica solo in relazione alla riforma costituzionale — anzi ad una determinata riforma costituzionale — del Senato. Se per questo aspetto la riforma costituzionale non andasse in porto, o se si tornasse, come qualcuno sta ventilando anche dentro la maggioranza, all’elettività diretta dei senatori, verrebbe meno la principale giustificazione della peculiare distorsione rappresentativa che connota la legge elettorale della Camera, e che per di più si produrrà in caso di ballottaggio senza alcuna soglia minima, ovvero in spregio a quanto richiesto dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 1 del 2014. Si tratta cioè della finalità di dare alla principale forza politica del Paese la maggioranza assoluta della rappresentanza parlamentare, garantendo così che la stabilità dell’esecutivo sia assicurata dai parlamentari candidati soltanto da un solo partito.
In altri termini, rallentare l’approvazione della legge costituzionale è comune interesse sia di chi — facente parte della maggioranza o comunque sostenendola indirettamente dall’esterno — intende tenere sulla corda l’esecutivo, sia di quest’ultimo nel prosieguo del suo mandato. Infatti, più si allunga il procedimento di approvazione della riforma costituzionale, più è giustificata la prosecuzione della legislatura, dato che nessuno è sicuro di vincere con il Consultellum. Ecco allora che crescono le possibilità che si ripresenti ai nostri occhi quanto più volte sperimentato, ossia che il procedimento di riforma costituzionale si svolga in modo simile alla tessitura della “tela di Penelope”, tenuto in piedi per lo più per ragioni strumentali e destinato ad interrompersi alla prossima crisi di governo. Quanto siffatto spettacolo sia poco coerente con gli interessi primari della collettività, che per di più è attualmente sottoposta a problemi di ben altra natura, è sotto gli occhi di tutti.
Infine, anche sul caso De Luca il Governo preferisce i tempi lunghi, forse perché sta prevalendo la convinzione che, scegliendo la via di procedere alla sospensione del presidente neoproclamato dopo la formazione della Giunta, si consentirebbe la legittima prosecuzione dell’attività di quest’ultima o per il tramite del vice-presidente, o da parte dello stesso De Luca, ristabilitosi provvisoriamente nella carica mediante un’eventuale sospensione giurisdizionale del provvedimento governativo di sospensione dall’esercizio delle funzioni.
Certo, provvedere a monte delle elezioni e in via d’urgenza sulla cd. legge Severino era politicamente assai rischioso, per ovvi motivi. Ma lasciare incancrenire ulteriormente la situazione produrrà risultati negativi da molti punti di vista: ne soffrirà la stabilità del governo regionale e si accentuerà la crisi di legittimazione della relativa rappresentanza, oltre che, più in generale, dell’intera classe politica. Tanto più che l’intervento sulla normativa in questione diventerà ancor più difficile, in quanto la stessa autorità che svolge funzioni di vigilanza e controllo in materia di corruzione si è già pronunciata, suggerendo al governo e al parlamento le modifiche a suo avviso più opportune.
Trovare soluzioni equilibrate e ragionevoli sarà poi ostacolato dal fatto che qualsiasi disciplina innovativa verrà confrontata dall’opinione pubblica sia con la fattispecie concreta che con la proposta dell’autorità di garanzia. Un doppio filtro che forse potrebbe indurre anche a rinviare ulteriormente.
In definitiva, come insegna la storia, la decisione politica è efficace quando si dimostra capace di agire “in tempo”. Altrimenti, corre il rischio di farsi scavalcare, dall’interno o dall’esterno dell’ordinamento. E quando sono in gioco interessi fondamentali dell’intera collettività, è quest’ultima a soffrirne, al pari della stessa democrazia.