Nel 1898 Konstantinos Kavafis pubblicava la sua celeberrima poesia “Arrivano i barbari”, nella quale un’insulsa classe di cortigiani attende l’incombente minaccia di invasione in un sospeso presente che di quella aspettativa si nutre. La metafora è stata usata da un recente editoriale di Tony Barber sul Financial Times per descrivere lo stato di inetta attesa delle “elite” europee, che di fronte alle ondate dei nuovi barbari delle armate del populismo (francese, italiano, polacco, ungherese, greco, olandese e persino finlandese), trovano in esse l’unica ragione di esistere. Perché è chiaro che dopo di loro non possano che esserci le tenebre di una Le Pen. Da qui una vita ormai votata esclusivamente a trovare soluzioni tampone per evitare il collasso dell’impero, affrontando le crisi alla spicciolata per come si presentano, sempre dando l’impressione di un ansante inseguimento che ci salva da un oscuro destino.
Si è proceduto in questa logica di risposta emergenziale nel cuore della tempesta sui debiti sovrani, dove, di soluzione tampone in soluzione tampone, si è fermata l’emorragia solo dopo il varo delle OMTs (Outright Monetary Transactions) annunciate il 26 luglio 2012 a Londra dal presidente della Bce. Prima una serie di lodevoli ma insufficienti iniziative degli Stati Membri e della stessa Bce, come il Securities Markets Programme, le Long Term Refinancing Operations, il varo del cosiddetto Fondo salva-Stati (l’European Stability Mechanism), volte ad arginare il cosiddetto rischio sistemico, il rischio cioè che la moneta unica saltasse per aria e con essa le finanze di molti stati europei. Durante, uno stillicidio di drammatici “salvataggi”, l’ultimo dei quali quello greco ancora tutt’altro che portato a termine.
Stesso incedere nell’epocale crisi migratoria che ha portato negli ultimi 12 mesi più di un milione di profughi in Europa.Sotto l’incalzare degli eventi si è pensato di distribuire qualche rifugiato di qua e di là con risultati risibili (movimenti nell’ordine delle centinaia di persone) e di delegare alla Turchia, dietro il pagamento di tre miliardi di euro (da raccogliere), una prima linea che possa reggere l’urto della pressione migratoria sul fianco più scoperto. Al di là dell’efficacia delle misure, rimane l’evidenza di una logica di rimessa, meramente reattiva agli eventi, priva di un disegno minimamente capace di affrontare fenomeni di una tale portata e incidenza. Ed esiste forse in tema di terrorismo, di intelligence o di difesa una strategia europea di lungo respiro di cui consta un dibattito all’altezza delle sfide? Quanto a quest’ultima si parte dalla schietta dichiarazione di Juncker, che a ottobre dichiarava in proposito: “Se guardo alla difesa europea (penso) che una batteria di polli sarebbe uno strumento di combattimento unificato più efficace”.
Da tale lucida presa d’atto, preceduta dalla nomina di un “consulente speciale”(l’ex commissario francese Michel Barnier), è scaturito l’incarico a un think tank (citato in un mio precedente articolo), che ha in effetti prodotto un ragionevolissimo studio che evidenzia (nel caso ve ne fosse bisogno) la stringente logica di efficienza sottesa a un esercito europeo. La strada indicata in quella bozza è il ricorso alla “Permanent Structured Cooperation”, mai decollata e prevista dall’articolo 42 del Trattato di Lisbona.
La domanda è sempre la stessa. Dov’è il progetto politico da dibattere nelle istanze democratiche? A nessuno in Europa nel 1952 era neanche lontanamente venuto in mente di costituire (sulla traccia istituzionale della Ceca) una Comunità della difesa (la Ced), senza collegarla alla nascita di una più ampia comunità politica, la Cpe, il cui trattato sarebbe dovuto entrare in vigore dopo la ratifica della stessa Ced, data al tempo per scontata. Qui veramente il tipico procedere della dinamica integrativa “funzionalista” (dei piccoli passi verso una meta non dichiarata), che da sempre spinge in avanti la barca europea, tocca l’apice della sua conclamata inadeguatezza, con risultati paradossali. Solo soggetti che hanno perso ogni contatto con la realtà possono pensare di affrontare l’estremo baluardo della sovranità statale, lo ius ad bellum, o anche la sola limitazione del principio, con le devastanti e definitive implicazioni costituzionali che ne derivano negli Stati membri, con uno studio per iniziati. Senza inserirlo in un più ampio quadro politico-sistemico e, soprattutto, senza l’apertura di un cantiere federale in cui coinvolgere opinioni pubbliche e parlamenti dei popoli partecipanti.
E qual è in relazione all’euro, un unicum nella storia che non ha mai visto sopravvivere a lungo monete senza Stato, il disegno organico per il futuro? Qui l’unico “progetto” inteso “a mettere in sicurezza l’unione economica e monetaria” è quello varato a giugno scorso dai cinque presidenti (della Bce, del Consiglio europeo, del Parlamento, della Commissione e dell’Eurogruppo) che ha mosso i suoi primi passi con estrema difficoltà già nella prima fase della sua road map che deve portare a completare l’Unione bancaria entro il 2017. Germania permettendo. Privo di ogni ambizione politica e comunicativa, anche per la sua origine istituzionale, esso si muove nella stessa logica “normativa” dei trattati in vigore e di continuità dell’evoluzione europea. Tappe progressive verso una meta sconosciuta o che non si ha il coraggio di dichiarare.
Unico argomento politico ossessivamente ripetuto, non solo dalla burocrazia europea, ma dagli stessi governi nazionali, ad esempio dal primo ministro francese alle scorse elezioni amministrative, l’imminente arrivo dei barbari e di un’epoca di oscurità e miseria. Di solito accompagnato dalla taumaturgica formula che non può che dissolvere ogni preoccupazione nelle masse: “Per uscire dalla crisi serve più Europa”. Il dubbio che di questi tempi si possa essere seppelliti da un corale “no grazie” tendenzialmente non li turba.
È in questo quadro desolante che il nostro Presidente del Consiglio nella sua conferenza stampa di fine anno ha confermato la linea dello scontro con l’Europa, non solo sui fronti noti della politica economica, del sistema bancario, dell’energia e dell’emigrazione, ma criticandone in radice la sua stessa direzione di marcia e gli attuali assetti di potere.
Dovrà però mettersi in fila il Premier,la coda dei barbari alle porte è lunga. Perché la linea tra un barbaro e un lucido riformatore che sferza il torpore di Bruxelles e Berlino, tra un Alexander Hamilton e un Matteo Salvini, è più sottile di quanto si possa credere. E non passa per il semplice dire che quest’Europa non ci piace. Che manca di una “mission”. Che un Paese non può decidere per gli altri. Non passa per slogan anti-austerity di cui sono tutti capaci. Per distinguersi dai barbari occorre proporre un’alternativa compiuta. Un progetto organico di riforma dell’Unione.
Che Europa vuole il Premier italiano? Con chi la vuole fare? Vuole un’Europa federale? Ha qualche idea migliore di quelle (poche) che circolano per costruirla? Ha una strategia per arginare la profonda mancanza di fiducia tra europei, oggi il primo motore della disgregazione? O tutto quel tintinnare di spade altro non è, a tener buona l’intervista del Ministro Padoan al Foglio, notoriamente più sobrio nell’argomentare, una forma di negoziato su questioni molto concrete che poco hanno a che fare con l’Europa del futuro?
Diceva Padoan, “se in Europa prevalesse un atteggiamento a trazione tedesca sul rischio bancario, sui titoli di stato, sulla flessibilità fiscale e sull’energia, allora l’Italia subirebbe una perdita secca. È un calcolo semplice da fare”. “Per questo”, pragmaticamente concludeva, “la cancelliera Angela Merkel dovrà accettare compromessi”. E per questo, non per altro, che il nostro capo del governo volerà in Germania.