Secondo Bernstein – incaricata informalmente di una stima – la rete fissa che Tim (cioè Telecom Italia) vuole scorporare e trasferire in una società distinta anche se ancora totalmente controllata varrebbe 13 miliardi. È la valutazione a oggi più attendibile rispetto alle aspettative che l’azionista di (debole) controllo del gruppo – il colosso dei media francesi Vivendi – spera di imporre sul tavolo della trattativa col futuro governo italiano. Una trattativa che oggi nessuno evoca ufficialmente, ma che sarebbe lo sbocco più logico, per non dire l’unico sensato, per l’impasse strategica e operativa nella quale versa il gruppo.
Intendiamoci: è un gruppo sano, che lavora, produce e vende. Ma ha davanti a sé sfide tremende: l’infrastrutturazione per la nuova telefonia mobile in modalità 5G, che costa un occhio oggi e renderà relativamente poco domani; la riconversione del rame alla fibra; l’upgrade dalla storica modalità “fttc” (cioè fiber to the cabinet, fibra ottica fino all’armadio di quartiere) a quella futura richiesta dalla banca ultralarga, la “ftth” (cioè fiber to the home, fibra ottica fin dentro la casa o l’ufficio del cliente); e la concorrenza agguerrita e finanziamente fortissima che Open Fiber muove sul mercato, con alle spalle la determinazione e la forza dei suoi due soci pubblici, Enel e Cassa depositi e prestiti. Come fare? Lo sapessero…
In realtà di questo nessuno può dare la croce addosso né ad Amos Genish, l’amministratore delegato pro-tempore di Tim su designazione tentennante dell’azionista francese, né allo stesso Vincent Bollorè, che dalla sua roccaforte parigina non ha ancora ben deciso, o forse capito, come trarre quattrini dalla casuale scorreria telefonica italiana. Societarizzare la rete – operazione mille volte auspicata o invocata dalle più varie e autorevoli controparti – di per sé non vuol dire infatti perfettamente nulla. È un espediente attuato quasi vent’anni fa in Gran Bretagna da British Telecom, un’azienda che conferì la propria rete a una propria controllata, Openreach, aprendone la governance all’autorità di controllo del mercato telefonico. Ma che c’entra tutto questo con l’oggi, e con il qui? È preistoria di un mercato lontano anni luce, in cui la domanda riguardava il come si potesse garantire l’efficiente liberalizzazione del mercato privando l’ex monopolista – com’era stata British Telecom nel suo Paese e la Sip in Italia – della possibilità di boicottare la concorrenza grazie al fatto di usare una rete propria, che gli altri potevano solo affittare ma non cogestire.
Ebbene, oggi quest’aspetto del problema è praticamente ridotto al minimo. La concorrenza sleale dei furbetti del monopolio è debole. Ci provano ancora, ovviamente, anche se non lo ammetteranno mai, neanche sotto tortura. Ma ricavandone ben poco. Oggi la concorrenza si è spostata sulla qualità della connessione. I megabit non bastano mai. Più se ne hanno, più se ne vuole: per godersi film in streaming, per scaricare enormi file in pochi secondi. Ed è a questo che serve la banda ultralarga, quella che Open Fiber sta installando in tutta Italia, seguita – certo! – da Tim, ma con la riserva mentale, da parte di quest’ultima, che ogni tratta in fibra totale installata toglie mercato e valore a quella preesistente in rame.
Dunque, come per la lotteria: ultimi giorni, approfittatene. Se non ora, quando Tim venderà la rete? E se non ora, quando lo Stato se la comprerà spuntando un prezzo opportunamente adeguato, al ribasso, al ridotto valore dell’asset? E dunque, uno dei primissimi dossier che il futuro governo – se mai ne nascerà uno in grado di occuparsi anche di questa “parva materia” dal voto del 4 marzo – sarà appunto il “che fare” con Tim. La strada maestra è lampante: acquisire la rete alla sempre vagheggiata e finora mai nata “società delle reti” che, sotto l’egida della Cassa depositi e presiti, controlli le tre reti strategiche per il Paese: quella elettrica, che con Terna la Cassa già controlla; quella del gas, che già controlla con Snam Rete Gas; e appunto quella dei dati, “il petrolio del domani” – come la chiamano gli informatici – cioè in fondo un’altra forma di energia.
Ma c’è un inghippo in più. Scorporando la rete, ai conti di Tim non capita nulla. Vendendola, sì. Se Tim non vende al giusto prezzo il suo asset più prezioso, non riesce a mantenere in equilibrio (anzi, vorrebbe migliorarlo) il rapporto tra patrimonio, redditività e indebitamento. E in fondo, non è interesse neanche dello Stato che il più grande gestore telefonico nazionale (non per proprietà ma per consistenza economica in Italia) vada a gambe all’aria, e per mani straniere. Dunque, a quel tavolo di trattativa – se mai si insedierà, e se mai vi siederà un governo forte – ci sarà un confronto tra controparti finte. Entrambe desiderose di un accordo onorevole per tutti, un accordo di sistema. Una Grosse Koalition telefonica.
Per la cronaca, e guarda caso, Genish ha detto che il piano per la separazione della rete sarà sottoposto al consiglio d’amministrazione di Tim il 6 marzo prossimo. Quando ormai si saprà chi avrà vinto le elezioni, ammesso che qualcuno le vinca.