“Non è la fine del mondo se vince il no” ha detto Maria Elena Boschi intervenendo di recente alla festa dell’Unità di Torino, dopo l’annuncio di Matteo Renzi “si vota nel 2018 anche se vince il No”. In realtà, al netto delle loro dichiarazioni, l’umore del premier e del ministro per le Riforme costituzionali è in salita; e non solo per il caso Raggi.
Il 4 ottobre la Corte costituzionale si pronuncerà sui due ricorsi presentati circa l’Italicum dai Tribunali di Messina e di Torino che hanno fatto propri alcuni rilievi sollevati da un comitato di legali coordinati dall’avvocato Felice Besostri, già protagonista della battaglia vinta contro il Porcellum. Per quanto il ricorso di Messina è a rischio ammissibilità perché presentato prima del 1° luglio scorso — quando è entrato in vigore l’Italicum — il problema per il ricorso di Torino non si pone.
Naturalmente uno dei nodi dell’Italicum è il premio di maggioranza al partito che vince le elezioni, cosa su cui non solo è in corso un grosso ripensamento da parte del Pd e dello stesso Renzi — il 40% delle elezioni europee 2014 è molto lontano — ma che lo stesso presidente della Repubblica Mattarella non ama, perché non include, non favorisce alleanze e coalizioni. L’altro invece riguarda la disciplina dei capilista bloccati scelti dai partiti, rispetto alla quale il dubbio di legittimità attiene ai margini di libertà riconosciuti rispettivamente agli elettori ed ai partiti politici.
Sul primo punto, anche Giorgio Napolitano in questi giorni ha detto la sua: “Serve un accordo per cambiare l’Italicum, lo scenario politico risulta mutato. Ci sono nuovi partiti che hanno rotto il gioco di governo tra due schieramenti, con il rischio che vada al ballottaggio e vinca chi al primo turno ha ricevuto una base troppo scarsa di legittimazione col voto popolare”. Sulla legge elettorale ha detto la sua persino Matteo Renzi: “L’Italicum si può cambiare anche con l’ok della Consulta”.
Sarà, dunque, fondamentale ciò che la Consulta deciderà il 4 ottobre. E se l’Italicum, come pare, sarà respinto, è chiaro che i partiti saranno chiamati ad un nuovo accordo politico sulla legge elettorale che potrebbe regalare qualche sorpresa. Anche se c’è da considerare che se da un lato l’accoglimento della censura di costituzionalità relativa alla disciplina del ballottaggio avrebbe l’effetto di spingere Governo e maggioranza a cercare un’ampia intesa parlamentare, dall’altro la dichiarazione di incostituzionalità relativa allo sola disciplina dei capilista bloccati non avrebbe lo stesso effetto in quanto la modifica da effettuare sull’Italicum in questo caso sarebbe già insista nella sentenza della Corte, con ben pochi margini di concertazione parlamentare.
La sconfitta di Governo e Parlamento, in poche parole, sarebbe in questo caso di ben minore portata e difficilmente le opposizioni potrebbero reclamare la necessità di un ampio consenso politico alle modifiche; ci sarebbe semplicemente da riconoscere la libertà dell’elettore di esprimere la preferenza per il candidato che più gli aggrada.
È chiaro che nell’ipotesi prevista dal primo scenario molte tensioni relative al referendum costituzionale potrebbero scemare. Il superamento del bicameralismo è sempre stato intento piuttosto condiviso dalla politica, la riforma non è perfetta ma — come ben sanno i nostri politici — perfettibile. Un nuovo accordo sulla legge elettorale potrebbe aprire la strada ad una “nuova” legislatura e rendere meno “indispensabile” il referendum costituzionale. Il grande problema politico della riforma si pone infatti in abbinata all’Italicum così com’è ora.
Non si dimentichi, intanto, che questa settimana a Milano si terrà quell’importante convention con la quale Stefano Parisi avrà la possibilità di consolidare la sua posizione: è tutto da vedere quanto sarà in grado di federare e di egemonizzare lo schieramento, ma è evidente che il neo candidato alla guida del centro destra ha il pieno supporto di Berlusconi e che una buona parte di Forza Italia, di Ncd e della Lega stessa — Maroni e Zaia in primis — lo appoggerà perché convinta innanzitutto della necessità di dialogare con il Pd di Matteo Renzi e, in secondo luogo, che Parisi sia l’uomo giusto.
Ecco perché Renzi sta cercando di posticipare il più possibile la data della petizione popolare ora che fermare il referendum costituzionale senza colpo ferire non è più giuridicamente possibile: a Renzi è chiaro che ha bisogno di un’intesa ampia in Parlamento e che la può trovare proprio con quella parte di centro destra che si stringerà attorno a Stefano Parisi e che isolerà le frange più estreme (M5s, sinistra dem, salviniani e brunettiani). Chiaro che, a quel punto, non ci sarà dai partiti un grosso ostruzionismo al Sì.
Questo, naturalmente, sempre che il 4 ottobre la Corte Costituzionale si pronunci accogliendo i ricorsi per l’illegittimità della disciplina che regola il ballottaggio. Se invece dovesse respingerli o sanzionare esclusivamente la disciplina dei capilista bloccati, ci troveremo a scrivere un’altra storia. Ma Mattarella, Napolitano e Renzi ci inducono a pensare che, nei fatti, la storia sia già scritta.