Per uno strano gioco della storia politica italiana, una corrente di partito e di pensiero –l’Associazione di cultura politica Libertà eguale – che nella vicenda del maggiore partito della sinistra – il PCI-PDS-DS-PD – aveva sempre avuto un ruolo quasi catacombale, tanto che il suo leader – Enrico Morando, oggi viceministro dell’Economia – aveva preso solo il 4%, quando si era candidato alla segreteria del partito, oggi si trova a esercitare un’egemonia quasi “involontaria” (Andrea Romano) e “preterintenzionale” (Covatta) nel mainstream della politica renziana. Nata sul terreno della corrente riformista e migliorista degli anni ’90, ispirata e diretta da Giorgio Napolitano, è venuta a poco a poco scegliendo tra un orientamento vetero-socialdemocratico e uno più esplicitamente liberal.
L’espressione “Libertà eguale” è stata coniata da Carlo Rosselli, negli anni ’30, teorico di un socialismo liberale, riformista, non marxista, sulla scia del laburismo inglese. La schiacciante vittoria politica interna di Renzi ha fatto improvvisamente cadere il diaframma del lungo tunnel scavato dalla “vecchia talpa” riformista, riconsegnandola alla luce di un nuovo giorno e di nuovi scenari. Sul piano delle scelte teoriche, la cultura politica socialista liberale naviga tra Scilla e Cariddi: tra la libertà darwiniana, intesa come risultato di spietata lotta per l’esistenza dell’individualismo competitivo, e l’eguaglianza marxiana, per conseguire la quale occorre sviluppare una spietata lotta di classe fino alla conquista dello Stato, o per via di dittatura del proletariato (i bolscevichi) o per via parlamentare (i socialdemocratici). Nella scia del socialismo liberale di Libertà eguale confluiscono la cultura politica cattolico-liberale di Pietro Scoppola e dei suoi discepoli (tra cui Giorgio Tonini e Stefano Ceccanti) e quella liberal americana e laburista inglese, che aveva tentato una condensazione negli anni ’90 attorno a Alleanza democratica. Senza indugiare troppo nello sforzo improbo di definire teoreticamente la conciliabilità di libertà e eguaglianza – c’è chi qualifica l’espressione di Rosselli solo come un elegante ossimoro – la prospettiva politico-culturale tratteggiata nel Convegno di Orvieto del 15/16 novembre 2014 è quella di un addio ragionato agli assetti istituzionali, politici e sociali della Prima e della Seconda repubblica per costruirne di nuovi. Riprendendo il lascito di Pietro Scoppola, che già all’indomani dell’assassinio di Moro, nel 1979 teorizzava una terza fase della storia della Repubblica, Stefano Ceccanti ha proposto di costruire un nuovo equilibrio tra rappresentanza e governo. Nella vulgata della sinistra, viceversa, la Costituzione, fatuamente definita “la più bella del mondo” da un noto comico, il rafforzamento della funzione di governo segnala un pericoloso scivolamento verso l’autoritarismo, di cui Renzi è, naturalmente, il pericoloso attore.
Che la gamba del governo raggiunga la lunghezza della gamba della rappresentanza, ha evidenti conseguenze sulla costruzione di un nuovo sistema elettorale, dopo che la Corte costituzionale, risvegliatasi da anni di letargo, ha dichiarato incostituzionale il Porcellum. Qui, tuttavia, il passaggio diventa irto di ostacoli. Proprio perché un sistema elettorale non si può architettare in solitaria, neppure se esistesse un partito del 51%, ciascuno degli attori in gioco porta al tavolo le proprie esigenze vitali di sopravvivenza. Così Berlusconi non vuole più i collegi uninominali, previsti dal Mattarellum, perché teme di scomparire, e neppure il premio maggioritario di lista: preferisce il premio alla coalizione, perché questo gli consentirebbe di ricostruire almeno una minicoalizione, che possa andare al ballottaggio. I NCD, la Lega, Rifondazione ecc… vogliono che la soglia di ingresso sia abbassata dall’8% al 3%. Poi, tutte queste forze, più la sinistra interna al PD, vogliono anche le preferenze, perché ritengono di poter sfruttare meglio i legami che hanno sul territorio. Renzi e Berlusconi, di nuovo, sono però d’accordo con il rafforzamento del governo e sulla necessità che gli elettori possano scegliere il premier, il cui nome deve uscire dalle urne, non dalle trattative tra i partiti. Di qui la proposta renziana del ballottaggio tra i due partiti che non raggiungano il 40% al primo turno. L’Italicum 2, pertanto, è una sorta di patchwork, di cui tutti i partiti sono contenti/scontenti per la parte che interessa loro.
Intanto, è evidente che il rafforzamento istituzionale del governo trascina con sé parecchie conseguenze: la prima è il cambiamento di ruolo della Presidenza della repubblica. La seconda è la ridislocazione dei poteri del sindacato. Proprio perché il governo era debole, il Parlamento è diventato la Camera delle corporazioni e il luogo di transazione con le potenze sociali, tra cui, appunto, il sindacato. Questo è il senso istituzionale della concertazione, il rifiuto renziano della quale ha generato una reazione estremistica della CGIL. Abituati a leggi favorevoli e al diritto di veto, si trovano male nel nuovo assetto, anticipato nei progetti, ma già praticato nella realtà da Matteo Renzi. La crisi della concertazione richiede necessariamente di ripensare le forme della cogestione, della partecipazione, che sono già state sperimentate, per es. in Germania. E anche le forme della contrattazione. Il passaggio dal livello 1 della contrattazione centralizzata a quello di secondo livello, legato alla produttività e al territorio. Più faticoso questo livello 2 per gli imprenditori e per i sindacati, comodamente assisi nell’egualitarismo centralistico. Che questa crisi profonda di identità del sindacato stia generando forme di estremismo – Landini ha proclamato: “andremo fino in fondo!” – e faccia da sponda al ribellismo crescente di fasce di popolazione è un fatto. Lo ha fatto notare Giorgio Tonini: ribellismo, “sciopero sociale”, adesione annunciata della CGIL al referendum anti-Euro e antieuropeista non hanno affatto portato ad una crescita della sinistra, ma solo ad un aumento – nei sondaggi – del fascioleghismo di Salvini. A questo ha richiamato anche un vecchio leone ormai novantunenne, Emanuele Macaluso.
La terza conseguenza è la crisi della vecchia forma-partito e l’elaborazione necessaria di una nuova. Il partito a vocazione maggioritaria è diverso dal “partito-ditta” di Bersani, perché non si illude più di avere un suo elettorato fedele. Detto in altro modo: non è più un partito di classe, anche se Renzi alle europee è diventato il primo partito degli elettori operai, mentre la ditta di Bersani nelle elezioni del 2013 era solo terza nelle preferenze degli operai. Un partito a vocazione maggioritaria e di governo rende visibile il proprio messaggio e lo incarna in un leader di partito e di governo, come, del resto, accade in tutta la sinistra europea. Il “partito che c’era”, ha concluso Morando, non è quello di cui la sinistra ha bisogno oggi. Certo, deve essere dotato di una visione, di una “narrazione” coerente, che cerchi di dare senso all’impegno individuale, nell’epoca della “disintermediazione” e della solitudine liquida. Con un’avvertenza: che il tutto è reversibile. Le porte delle opportunità del cambiamento si aprono e si chiudono in fretta.