La fissazione delle primarie democratiche per il 30 aprile non fa che ufficializzare un accordo che già c’era, ma che avrà conseguenze rilevanti per tutta la politica italiana. L’accordo era quello fra Matteo Renzi e il vero ras del Pd, Dario Franceschini, che ha confermato il suo sostegno al leader dimissionario in cambio dell’esclusione del voto a giugno, con la benedizione autorevole del Quirinale, che simile ipotesi ha fatto di tutto per evitare.
Il Quirinale infatti è talmente preoccupato dell’ingovernabilità prossima ventura che preferisce guadagnare tempo, nella speranza che si riannodi qualcuno dei fili di dialogo che oggi sembrano spezzati. Per Mattarella, non è un mistero, sarebbe bene arrivare alla fine naturale della legislatura con il governo Gentiloni, affrontando nel frattempo i nodi della legge elettorale e della correzione dei conti pubblici sollecitata dall’Europa.
In purissima teoria, le porte del voto a giugno non sarebbero ancora totalmente sbarrate, ma ridotte al lumicino. Il nuovo segretario democratico verrà intronizzato il 7 maggio e ci sarebbe tempo sino all’11 per sciogliere le Camere e precipitate al voto nell’ultima data utile, il 25 giugno. Ma sarebbe davvero singolare se il primo atto del nuovo leader del Pd fosse di staccare la spina al governo del Pd.
Con sollievo di Mattarella, quindi, sarà un Gentiloni nella pienezza dei poteri a gestire il vertice di Roma sui 60 anni dei trattati Europei (il 25 marzo) e il G7 di Taormina a fine maggio. Dopo quella data, però tutto diventa possibile.
Renzi ha una fretta dannata. Dà per scontato di ricevere una nuova investitura popolare dalle primarie (e i primissimi sondaggi lo confortano in questo, attribuendogli oltre il 60%), e non intende dare troppo tempo per riorganizzarsi ai suoi avversari, grillini e scissionisti in primis.
In verità, i maligni aggiungono una consistente motivazione alla fretta di Renzi: non avere intenzione di intestarsi da solo (come sostenitore quasi unico di Gentiloni) la pesante manovra economica che si profila all’orizzonte dell’autunno politico. Si tratta di trovare non meno di 20 miliardi, con l’Europa che forse attenderà sino ad allora, ma non oltre.
Il problema di Renzi è che i suoi alleati nella richiesta di anticipare almeno di qualche mese la fine della legislatura sono esclusivamente coloro che mai lo aiuterebbero a governare dopo le elezioni: Salvini, la Meloni e Grillo. I potenziali alleati per il dopo voto sono, al contrario, i frenatori di oggi. Si pensi a Berlusconi che attende ostinatamente il Godot della riabilitazione per mano dei tribunali europei, i centristi (alfaniani e non) disperati e senza casa, o gli scissionisti Pd, la cui organizzazione è oggi all’anno zero.
Una simile vischiosità potrebbe avere la meglio, anche perché nessuna accelerazione troverà sponde nel Capo dello Stato, che dalla Cina continua a raccomandare dialogo e a ricordare quanto sia essenziale per gli interessi del paese la stabilità di governo. Non servono, scandisce Mattarella, “azioni unilaterali, disordinate e frenetiche”. Meglio quindi che l’amara medicina prescritta da Bruxelles venga somministrata da questo parlamento che rinviata al successivo, che potrebbe essere ancora più confuso e ingovernabile di quello attuale.
Nulla, del resto, autorizza foschi pensieri più della totale assenza di accordo sull’armonizzazione delle leggi elettorali. La discussione fra i partiti non decolla, con la conseguenza che un’intesa per limitare i rischi di ingovernabilità sembra lontanissima. Le proiezioni dei sondaggi sulla composizione della futura Camera, sulla base del sistema proporzionale, certificano che per raggiungere la fatidica quota di 316 seggi, la maggioranza assoluta, potrebbero non bastare neppure i seggi del Pd, di Forza Italia e dei centristi. E questi calcoli erano precedenti alla scissione targata D’Alema/Bersani.
Lo scenario dell’ingovernabilità è il peggiore immaginabile per Renzi, perché ben difficilmente potrebbe incarnare una fase di ritorno ai riti della Prima Repubblica, con la necessità di costruire i governi in parlamento sulla base di complicati patti di coalizione. La sua scommessa non può che essere, di conseguenza, quella di evitare questo scenario. Se non sarà tornato dalla Silicon Valley con idee innovative, si troverà a giocarsi per intero il suo futuro politico con poche chances di spuntarla.
Non si dimentichino altri due elementi che, di certo, non contribuiscono a chiarificare la situazione. Il primo sono le elezioni amministrative (oltre mille comuni, tra cui Genova, Palermo, Taranto e Verona), che probabilmente si terranno a giugno (11 e 25 le date più probabili). Il secondo elemento, sinora troppo trascurato, sono i due referendum sul Jobs Act proposti dalla Cgil. Che — se nessuno provvederà a disinnescarli — potrebbero trasformarsi per Renzi e il suo Pd in un nuovo 4 dicembre.