La sconfitta è un’opzione non contemplabile. Il sindaco di Firenze, Matteo Renzi, con un furbesco artifizio verbale, ha blindato il proprio futuro. «Se vincono loro, vorrà dire che l’Italia ha scelto l’usato sicuro, se vinciamo noi, vanno tutti a casa», ha detto a Repubblica, accingendosi alla sfida per le primarie che, dal 13 settembre, lo vedrà in campagna elettorale, in camper, in giro per l’Italia. “Loro” sarebbero l’establishment piddino di lungo corso, gli over 50 e over 60 che, da decenni, occupano tutte le poltrone occupabili, dal partito, al Parlamento, dai governi alle amministrazioni locali. Logica vorrebbe che, se “loro” vincono, per reciprocità, dovrebbe essere Renzi ad andarsene e casa. Invece, bontà sua, si limiterà a non «accomodarsi in Parlamento. Resterò a fare il sindaco. Ma non rinuncerò ad un riequilibrio interno», ha aggiunto. Insomma, comunque vada, vince. Sta di fatto che, ad occhio, non sembra avere molte chance di scalzare Bersani dalla leadership del Pd. Non la pensa così Alessandro Amadori, fondatore e direttore di Coesis Research e politologo.
Secondo lei, quante possibilità ha Renzi di diventare segretario del Pd?
E’ moto difficile, adesso, fare previsioni. Analogamente alla elezioni politiche, infatti, i processi decisionali relativi alle primarie tendono a concretizzarsi a ridosso delle votazioni vere e proprie; contestualmente, l’intenzione di voto del popolo delle primarie e quello dei cittadini elettori sono entrambi inficiati dal medesimo livello di incertezza e fluidità. Detto questo, Renzi potrebbe farcela. Sussistono, infatti, condizioni e fattori di contorno che rendono possibile attribuirgli un buon 50% di probabilità di successo.
Quali fattori?
La rassegnata stanchezza diffusa tra gli italiani, la rassegnazione e lo sconforto hanno già reso possibile, in diverse città italiane, che sia le primarie del centrosinistra che, successivamente, le elezioni amministrative, fossero vinte da outsider.
Crede, in ogni caso, che l’auspicio di rottamare la vecchia classe dirigente sia, nel centrosinistra, maggioritario?
Non la metterei così. Il sindaco di Firenze, giustamente, si avvale di codici di linguaggio comunicativi; ma questa è una semplificazione propagandista. Non credo, infatti, che il popolo del centrosinistra intenda rottamare l’establishment, come non lo vuole il centrodestra. Di sicuro, invece, la situazione è tale da far sì che in molti ritengano che possa valer la pena giocare un carta nuova.
Lei afferma che la voglia di rottamazione vera e propria non c’è. Come la mettiamo, allora, con l’antipolitica, il disprezzo per la casta, la rabbia scaturita dall’assoluta immobilità delle istituzioni di fronte alla crisi?
E’ necessario raffrontare il fenomeno a quanto avviene su scala europea; se pensiamo alla rivolta delle banlieues, dove furono bruciate 10mila autovetture, al tentativo di assaltare Wall Street o alle manifestazioni che hanno messo a ferro e fuoco Londra, non mi pare che la società italiana sia sul crinale dell’adesione a modelli contestatari antipolitici. Certo, il Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo ha goduto di un incontestabile successo; ma si è prodotto anche per l’assenza, da parte dei rivali, di una seria offerta politica. Non vedo, in sostanza, un popolo realmente arrabbiato, pronto a scatenare rivolte o a votare formazioni distanti dai criteri democratici.
Com’è possibile?
Esiste, negli italiani, una sorta di vaccinazione collettiva verso qualsivoglia classe politica. Sta di fatto che si è concluso un ciclo. Dopo la fine della Prima Repubblica si decise di dare fiducia a Berlusconi. Terminato, quindi, il ciclo berlusconiano, la società italiana si trova in procinto di scegliere una seconda volta il cambiamento. A differenza di 20 anni fa, tuttavia, non sa ancora tra quali opzioni. Non escludo che esistano i margini per l’emersione di un soggetto politico nuovo. Certo, abbiamo assistito in questi mesi al moltiplicarsi dei marchi. Ma ad una proposta politica realmente inedita, non ancora.
Se Renzi potrebbe rappresentare, per il centrosinistra, il rinnovamento, nel centrodestra non si assiste ad un fenomeno analogo; l’alternativa a Berlusconi resta Berlusconi.
Sul perché, è difficile individuare una risposta univoca. Sta di fatto che, mentre il Pd ha sempre avuto una struttura partitica tradizionale, il Pdl si è configurato fin da subito come una convergenza tra feudatari, ove è sempre esistito un “imperatore”; che, a meno che non avesse deciso lui stesso di trovarsi un delfino – e questa strada, realmente, non l’ha mai seguita – sarebbe sempre rimasto assiso nelle sue funzioni. Ora che l’impero è debole, i feudatari non hanno alcun interesse a prenderne le redini, e preferiscono a continuare a gestire il potere nei propri ruoli.
(Paolo Nessi)