Ma davvero gli Stati Uniti dichiareranno fallimento? Sembra una domanda da thriller finanziario e invece è una prospettiva concreta. Toccherà di nuovo alla banca centrale, la Federal Reserve guidata per la prima volta da una donna, Janet Yellen, prendere in mano il timone come ha fatto in questi anni? Fino a che punto potrà arrivare? Mentre l’Europa faticosamente esce dalla recessione e la Cina cerca di ingranare la marcia dopo il rallentamento dell’ultimo anno, i pericoli per l’economia mondiale vengono dall’America, sì proprio quella che, a partire dal 2010, aveva fatto da locomotiva all’Occidente; una motrice lenta, ma sempre in marcia negli ultimi tre anni. È una situazione che ha dell’incredibile.
“Non è questo il modo di governare un Paese”, ha scritto l’Economist. E non si tratta di un Paese qualsiasi. Le cronache raccontano il braccio di ferro tra l’Amministrazione Obama e i Repubblicani al Congresso come uno scontro tra due opposte intransigenze. Il presidente vuole difendere a tutti i costi la sua riforma sanitaria, forse l’unica cosa concreta che lascerà dopo i sue due mandati. L’opposizione ne approfitta per lanciare un’offensiva che prefigura già la prossima battaglia per la Casa Bianca, con il movimento libertario dei Tea Party usato come ariete. Il tutto, anche a costo di provocare un disastro.
Obama parla di “pericolo nucleare”. I Repubblicani gettano acqua sul fuoco e lo accusano di drammatizzare ad arte la situazione. I mercati per il momento danno loro ragione. Un po’ non credono che si arrivi al default, un po’ pensano che una fuga in massa dal dollaro sia improbabile. Gli Stati Uniti hanno l’enorme privilegio di stampare la moneta dominante, ancora senza rivali al mondo, e ciò rappresenta la grande ciambella di salvataggio. Fino a questo momento non c’è nessuna vendita consistente di titoli del tesoro americano nel timore che zio Sam non rispetti i propri impegni con il mercato. Il tetto all’indebitamento verrà aggiustato, dunque, nel momento stesso in cui i contendenti si metteranno davvero a discutere. Ma a quale condizione ciò potrà avvenire?
Il leader repubblicano John Boehner, speaker della Camera dei rappresentanti, sostiene che prima il presidente deve dichiararsi disponibile a ridurre la spesa pubblica, soprattutto tagliando i costi eccessivi provocati dalla riforma. “Non possiamo alzare il tetto all’indebitamento – spiega – senza fare qualcosa che ci impedisca di prendere ancora denaro in prestito e vivere sopra i nostri mezzi”. Un ragionamento sensato e fondato. Perché una delle ragioni della grande crisi è proprio l’eccesso di indebitamento delle famiglie e delle imprese americane. Il deleveraging, come si dice, cioè la riduzione del fardello debitorio, non può riguardare solo l’Europa, occorre un rapporto più equilibrato nel cuore del sistema.
La Cina trattiene il fiato, con tutti i titoli americani che ha in pancia e invita alla moderazione. In realtà, per avere un minimo di certezza che non scoppierà un’altra crisi simile a quella del 2007-2008, occorre che gli americani cessino di farsi finanziare in modo illimitato dai cinesi. Questi ultimi dovrebbero accumulare meno riserve in dollari, aumentare gli investimenti in euro e altre valute, spendere di più all’interno, espandendo il mercato domestico e creando un vero welfare state. Insomma, così vorrebbero i manuali per raggiungere un assetto equilibrato del mercato mondiale. Ma, come si sa, la politica non segue i manuali.
Non solo. I Democratici oppongono a queste pillole di saggezza economica la loro visione: è vero che il debito pubblico è aumentato troppo per assorbire il debito privato, ma così facendo si è consentito di ridurre la disoccupazione e rilanciare l’economia interna, compresa la manifattura. Dunque, una politica di tagli, un’austerità all’europea – insistono – ci porterebbe in recessione. E i mercati finanziari temono di più la recessione del debito pubblico. Insomma, due visioni in contrasto che sembrano non avere punti in contatto. Un duello ideologico sull’orlo del precipizio.
Alla banca centrale non resta che continuare nella sua politica accomodante, stampando moneta, comprando titoli pubblici e privati, mantenendo i tassi d’interesse vicini a zero se non proprio in territorio negativo. Janet Yellen è una “colomba”, convinta ancor più di Ben Bernanke della necessità di tenere aperti i rubinetti. Del resto, un cambio di strategia oggi, per quanto progressivo, getterebbe i mercati in allarme, rischiando davvero una corsa a vendere titoli di stato che hanno rendimenti troppo bassi, fino alle soglie del panic selling.
Anche la medaglia monetaria ha la sua faccia oscura. Perché un periodo tanto prolungato di credito facile è la premessa alla creazione di una nuova bolla immobiliare (ancora una volta sono le case ad aver risollevato la domanda interna; il vecchio mattone, non Twitter). La stessa ripresa americana, così, rischia di essere drogata dall’eccesso di liquidità e non tirata dall’aumento del tasso di profitto come vorrebbe la teoria della crescita.
Un conflitto senza esclusione di colpi, né moderazione di sorta, una politica di bilancio espansiva e una politica monetaria forzatamente permissiva, formano una miscela mefitica. Se si riuscisse, come i più si augurano, a trovare un’intesa all’ultimo momento per alzare il tetto all’indebitamento, resterebbero comunque in piedi le contraddizioni provocate da scelte squilibrate. I Repubblicani hanno ragione nel sostenere che non si può continuare con la manfrina dei rinvii. I Democratici non hanno torto a temere una brusca frenata che farebbe sbandare la complessa macchina produttiva. La soluzione più saggia è aprire una fase nuova in cui la classe dirigente prende su di sé il compito di dire agli americani che è ora di cambiare marcia.
L’Economist sostiene che spetta ai Repubblicani mostrare ragionevolezza, rinunciando a usare la riforma sanitaria come arma contundente: in fondo, se vinceranno le prossime elezioni potranno sempre cambiarla. In realtà, la svolta è nelle mani di Obama non solo perché è lui il comandante in capo, ma perché, giunto nel pieno del secondo mandato, non ha più niente da perdere. Si dice che i presidenti a questo punto pensano solo a restare nella storia. Lo si può fare provocando disastri, oppure raccontando la verità a se stessi e ai propri concittadini.