L’Associazione nazionale fra le Banche popolari ritiene il recente d.l. del Governo gravido di conseguenze negative su risparmio nazionale e su credito famiglie piccole medie imprese, per un Paese, come il nostro, privo d’investitori di lungo periodo in aziende bancarie e, non ultima, ingiustificato e ingiustificabile. Il modello di banca territoriale non è risultato sostenibile al di fuori della banca cooperativa, vuoi nell’articolazione della banca popolare, vuoi della Bcc. Non deve esserci una politica economica finalizzata esclusivamente a trasferire la proprietà di una parte rilevante del sistema bancario italiano alle grandi banche internazionali. Per queste ragioni l’Associazione e le Banche popolari non lasceranno nulla di intentato, perché il d.l. venga meno e l’ordinamento giuridico continui a consentire a tutte le banche popolari di mantenere la propria identità.
Ove detti sforzi fossero coronati da successo, nondimeno le banche popolari continueranno con maggiore urgenza e determinazione a perseguire una ulteriore evoluzione del proprio ordinamento cooperativo (che è già per altro il più recettivo delle istanze di mercato, anche a livello europeo) e a proseguire un processo di concentrazione, che hanno dimostrato di saper praticare in passato in misura più elevata rispetto al resto del sistema. Detto processo oggi segna il passo, non perché ostacolato dalla forma giuridica delle banche popolari, ma per l’avvento di regole e prassi di sorveglianza europee particolarmente avverse alle attività di finanziamento di famiglie ed imprese, e particolarmente severe verso intermediari che operano in paesi da lungo tempo in recessione e con elevato debito pubblico come l’Italia.
Diversamente, ove i nostri sforzi non andassero a buon fine, nulla sarà lasciato di intentato per proseguire comunque la propria missione di banca territoriale, finalizzata alla raccolta del risparmio, da destinare principalmente al credito verso le famiglie e le imprese, specie medio piccole, del medesimo territorio. Alle Banche popolari, non mancherà il coraggio, la fantasia e la determinazione per proseguire la propria storia, anche in un contesto normativo pregiudizialmente e irragionevolmente avverso.
Bene: cosa accadrà ora alle Popolari italiane? Il comunicato partorito ieri dell’AssoPopolari dopo un lungo summit a Milano non poteva non esprimere una contrarietà di principio al blitz varato martedì dal Consiglio dei ministri: un malumore anzitutto per la forma-decreto scelta dal governo (c’erano davvero “motivi di urgenza” per obbligare le 10 maggiori Popolari a trasformarsi in Spa “qui e ora”?). Ma è evidentemente la sostanza del provvedimento ad aver colpito frontalmente il presidente Ettore Caselli (già al vertice della Bper) e lo stato maggiore dell’associazione (da Carlo Fratta Pasini del Banco a Giovanni De Censi di Creval e Icbpi; da Andrea Moltrasio di Ubi a Gianni Zonin della Vicenza).
Il diktat sul passaggio forzato dalla cooperativa alla Spa – dicono – espone le Popolari italiane a scalate estere e l’Azienda-Italia alla perdita potenziale di una storica infrastruttura di intermediazione di risparmio delle famiglie e credito per le imprese.
Dunque – come Mario Draghi nell’estate 2012 per l’euro – le Popolari italiane sono anzitutto intenzionate a fare whatever it takes, qualunque cosa si renda necessaria, per “far venir meno” il decreto e difendere a oltranza la loro “identità cooperativa”. Orientamento molto impegnativo, che esporrà la categoria alla prevedibile “narrazione renziana” di un Paese che soffre a causa di lobby e di rendite di posizione.
È vero che il confronto avverrà in Parlamento: sarà lì – come per infiniti altri momenti di governo e di cambiamento – che si misurerà chi e quanto rappresenta veramente “quale Paese”. Se il governo “di domani” o le Popolari “di ieri e di oggi”, tradizionalmente trasversali nella società e nell’economia e politicamente forti a Roma (lo si è visto anche nelle prime reazioni verbali, che hanno spaziato da Lega a MS5 a una forza della maggioranza come l’Ncd) . Non è un caso che – lungo un quarto di secolo – nessun progetto di riforma radicale del comparto abbia mai visto la luce in sede parlamentare. E poi non mancano precedenti importanti: ad esempio, quello delle Fondazioni messe nel mirino da Giulio Tremonti nella finanziaria 2001.
Anche l’Acri, a caldo, sembrava in forte difficoltà di fronte a un blitz che di fatto ritrasferiva al governo i poteri di nomina dei vertici e di gestione del patrimonio. Eppure con una tessitura tenace fra aule parlamentari e sedi della giustizia amministrativa, Giuseppe Guzzetti riuscì a strappare infine addirittura una garanzia costituzionale per i suoi enti: tutt’altro che popolari sui mercati e sulla grande stampa, ma pesanti come “pezzi di paese reale”. Se comunque Tremonti ammise sportivamente la sconfitta, fu il suo successore al tesoro Domenico Siniscalco a incassare subito un’importante contropartita: un miliardo versato da 66 Fondazioni nella nuova Cassa depositi e prestiti, necessaria per stabilizzare il bilancio statale. E fu poi lo stesso Tremonti – tornato in via XX Settembre fra il 2008 e il 2011 – a contare sull’alleanza strategica delle Fondazioni (e delle banche da loro controllate) per tutte le iniziative Cdp su cui lo stesso Renzi sta ora cercando di far leva: dai fondi infrastrutturali a quelli di social housing, a quelli di sviluppo e garanzia crediti per le medie imprese.
Il governo – da parte sua – ha fissato un termine di 18 mesi per la trasformazione obbligatoria in Spa – si è già detto nei fatti disponibile a un confronto, apparentemente negato dalla forma-decreto. Fin d’ora si annuncia importante il ruolo della Banca d’Italia, finora silente, neutrale sia rispetto alla mossa diretta del governo sul Testo unico bancario, ma anche rispetto alle Popolari sotto assedio. Il cambiamento delle Popolari si profila anzi come un primo test importante nell’aggiustamento dei rapporti fra nuova vigilanza centralizzata presso la Bce e “vecchie” vigilanze nazionali.
Non ha torto l’AssoPopolari quando accusa il governo italiano – in maniera neppure troppo velata – di affiancarsi a quei “poteri europei” che da anni premono per via regolamentare sulle banche territoriali italiane frenando e riducendo tutte le loro possibilità operative. Per di più – lo abbiamo sottolineato su queste pagina alla vigilia del consiglio Bce di ieri – l’accelerazione di Palazzo Chigi “contro” le Popolari italiane è parsa coincidere con la necessità di offrire a Mario Draghi il massimo del supporto nello scontro finale con la Bundesbank e gli altri banchieri centrali del nord (“sì al Quantitative easing nell’euro in cambio di riforme vere”; e proprio ieri sono giunti a Renzi i complimenti espliciti di Angela Merkel).
Il termine di 60 giorni per la conversione del decreto sembra in ogni caso garantire tempi e modi per “reimpacchettare” in misura più concertata la riforma delle Popolari. Le Popolari – dopo il “nì” di ieri, quasi scontato – farebbero bene a tirare fuori in fretta lo studio sull’autoriforma della “governance” affidato a tre super-saggi come Alberto Quadrio Curzio, Piergateano Marchetti e Angelo Tantazzi. Poi sarebbe nell’ordine delle cose che tutti i consigli d’amministrazione delle 10 Popolari mettessero formalmente allo studio le aggregazioni che sono il fine sostanziale di politica creditizia del decreto. Se non proprio aprendo colloqui immediati con altre banche, ciascuna Popolare potrebbe chiamare un advisor: darsi tempo poche settimane per una “review strategica” della propria situazione.
Nel frattempo nel mese di febbraio tutte le Popolari presenteranno i loro consuntivi 2014: momento ideale per dire (ai mercati, al governo, all’opinione pubblica) come e perché i risultati sono stati raggiunti e come i singoli gruppi intendono muoversi in futuro. Nessuno si stupirebbe neppure se le Popolari si consultassero collettivamente con il governatore Ignazio Visco: in un vertice straordinario in Via Nazionale.
È ben scelta la parola “fantasia” al termine del comunicato: può sembrare un termine poco bancario, ma è esattamente ciò che Renzi ha chiesto alle Popolari: certo, strattonando e lacerando le grisaglie di presidenti e amministratori delegati, ma ora è l’unica arma che hanno per rispondere al blitz. Per veder trasformato, ad esempio, il decreto in disegno di legge. Per costruire un regime di governance diverso dall’attuale ma anche dalla Spa. Per allestire cantieri di fusioni e acquisizioni che mantengano – almeno inizialmente – azionisti di riferimenti nazionali (territoriali) alle “nuove Popolari”.