La settimana scorsa Janet Yellen ha completato il proprio mandato alla guida della Federal Reserve americana ed è stata sostituita da Jerome H. (detto Jay) Powell, la cui nomina da parte del Presidente Donald Trump è in attesa di essere ratificata dal Congresso. Il cambiamento, come ci dicono le cronache finanziare dei giorni scorsi, è stato salutato con nervosismo dai mercati azionari, in primo luogo da Wall Street e, subito dopo, dalle maggiori piazze europee. Non si tratta del primo cambiamento ai vertici di una delle maggiori autorità monetarie mondiali. Alla stessa Federal Reserve ci potrebbero essere altre sostituzioni nei prossimi mesi; tra componenti del Consiglio dell’autorità federale in scadenza e possibili dimissioni (di cui si parla nella Washington-che-può), Trump potrebbe disporre di quattro nomine; dalle sua scelte dipenderà se Powell (un uomo di finanza, non un economista come coloro che lo hanno preceduto negli ultimi quaranta anni) avrà vita facile o difficile nel suo compito di forgiare un consenso nel direttorio monetario. Uno dei suoi “colleghi” potrebbe essere John Taylor, dell’Università di Stanford, critico durissimo della Fed negli ultimi anni e noto per non avere un carattere facile.
Tra breve, anzi tra brevissimo, il settantenne Zhou Xiaochuan, da numerosi anni alla guida della banca centrale cinese, potrebbe essere mandato in pensione; non gli è stato rinnovato il mandato di Vice Presidente del Comitato Consultivo Politico, incarico che aveva dal 2013. Il Comitato è stato convocato per il 2 marzo ed è probabile che il “cambio della guardia”, se è stato deciso, avverrà prima di allora, forse alla vigilia. Quasi certo, il cambiamento al vertice della Bank of Japan. Il mandato del Governatore Haruhiko Kuroda scade in aprile; è stato nominato cinque anni fa dall’attuale Primo Ministro Shinzo Abe, ma a Tokyo si dà quasi per certo che non avrà un secondo mandato.
Infine, anche per la carica di Presidente della Banca centrale europea sono già in corso trattative pur se il mandato (non rinnovabile) di Mario Draghi scade solamente al termine del 2019. I due favoriti sarebbero Jens Weidmann, Presidente della Bundesbank, e Francois Villeroy de Galhau, Governatore della Banque de France. Francia e Germania sono i due azionisti di maggioranza dell’eurozona; tra loro c’è per di più una salda alleanza. Se non sarà uno dei due a sostituire Draghi è, comunque, probabile che i due Governi decideranno insieme di candidare un banchiere centrale dei Paesi nordici.
È plausibile attendersi tensioni sui mercati azionari, più o meno forti, a ogni cambio al vertice di questi istituti. Soprattutto, però, i banchieri centrali dell’ultimo scorcio di questo secondo decennio del ventunesimo secolo si troveranno a operare in un contesto molto differente rispetto a quello dei loro immediati predecessori. Questi ultimi hanno guidato le banche centrali in fase in cui politiche monetarie “accomodanti” erano uno strumento per uscire dalla recessione iniziata dal 2008 (e dalle relative crisi di banche commerciali e di investimento anche di dimensioni molto grandi) e facilitare una ripresa più o meno sostenuta. Ora il contesto è mutato drasticamente. Alcune economie – principalmente quella degli Stati Uniti – stanno accelerando più del previsto. Alcuni mercati azionari – ancora una volta soprattutto Wall Street – sono arrivati all’inizio di febbraio a livelli che parevano non in linea con i fundamentals (l’andamento di fondo dell’economia reale e della finanza pubblica). I banchieri centrali hanno il difficile compito di ridurre il numero di bottiglie di alcolici quando la festa diventa troppo allegra e minaccia di finire fuori controllo, evitando, però, al tempo stesso di inviare segnali che possano essere male interpretati e scatenino una nuova recessione.
Il fine tuning è reso più arduo dall’abbondanza di obbligazioni sui mercati mondiali, un frutto dei disavanzi e dei debiti pubblici. Quelli emessi nell’ultimo decennio hanno rendimenti molto bassi, proprio in quanto il contesto era di politiche monetarie “accomodanti”. Non possono non essere sensibili anche a modesti aumenti dei tassi d’interesse che da bassi farebbe diventare negativi i loro rendimenti. Con implicazioni molto serie per tutti, anche per i mercati azionari. Per questo motivo Janet Yellen e i suoi colleghi avevano iniziato una politica di “aggiustamenti” molto graduali, quasi minimali, dei tassi. È verosimile che questa strada verrà seguita dal suo successore.
In Europa e in Giappone si persegue ancora una politica monetaria “accomodante”, ma in una fase di espansione normale, di ripresa dell’inflazione e di segnali di “bolle” in questo o quel settore, non è detto che possa continuare molto a lungo. Soprattutto, gli Stati Uniti sono una calamita e la sola sensazione di aumenti dei tassi americani potrà attirare capitali e investimenti negli Usa rendendo più difficile la ripresa nei Paesi da cui capitali e investimenti emigrano. In seno alla stessa Banca centrale europea si stanno levando voci critiche su misure monetarie, sia convenzionali sia non convenzionali, considerate troppo “accomodanti”.
La situazione dell’Italia è particolarmente difficile perché – come sottolineato il 5 febbraio su questa testata – non siamo stati ancora in grado di agganciarci alla ripresa mondiale e potremmo dover far fronte a un aumento anche leggero dei tassi che avrebbe implicazioni molto pesanti su economia reale e debito pubblico. Alcuni economisti italiani ritengono che un “divario” tra politiche monetarie americane ed europee è fattibile. Le vicende della settimana scorsa mostrano che i mercati sono strettamente integrati e che, quindi, un coordinamento tra banche centrali è quanto mai necessario.